venerdì 23 luglio 2010

"LEZIONI" DALLA BBC

IL CASO/ Perché la Bbc vieta le battute sull'Islam, ma incoraggia gli insulti al Vaticano?

Luca Volontè

venerdì 23 luglio 2010

I fatti valgono più di ogni argomento. È da tempo che la televisione pubblica inglese, l’unica a cui i cittadini pagano un canone pubblico, la "prestigiosa" Bbc, crea polemiche e dispiaceri a tutti i fedeli di ogni chiesa cristiana. Gli insulti al Papa crescono al diminuire dei giorni che lo separano dalla visita apostolica, quelli alla Chiesa Anglicana si moltiplicano dopo l’empasse sull'ordinazione di sacerdoti donne e vescovi gay e lesbiche.

I fatti sono tanto chiari, quanto ripetuti, la "giustificazione ufficiale" è la goccia che ha fatto traboccare il vaso della Chiesa anglicana e Cattolica. Infatti, la Bbc si è sentita in dovere di dare una propria spiegazione, dopo l’ennesima protesta delle Chiese Cristiane. Alla Bbc si potrà continuare a fare battute, anche irriverenti, sui cristiani o sul Vaticano ma ogni presa in giro dell'Islam è severamente vietata. Lo ha deciso, secondo quanto riporta un tabloid, il direttore generale del servizio pubblico britannico. Per il numero uno della Bbc, memore delle proteste per le vignette blasfeme su Maometto, ma assolutamente indifferente alle vibrate proteste cattoliche e anglicane, i musulmani "sono più suscettibili dei cristiani ", “sono una minoranza già marginalizzata” e quindi è meglio non irritarli. Non importa se alcuni quartieri di importanti città inglesi siano già sotto la "giurisdizione" degli imam, non importa se la shaaria divenga sempre più popolare tra i sudditi inglesi di sua Maestà, non importa nemmeno se ai cristiani è vietato indossare crocifissi o santini sul proprio abbigliamento.

No, per la Bbc tutto è tollerabile contro i cristiani, anzi gli insulti possono anche aver una buona dose di utilità per rendere più coesa la società inglese. Sic! La patria dei nuovi laici ateisti non dà certo prova di tolleranza, né di rispetto del diritto umano di credo religioso. Alla libertà religiosa si sostituisce la libertà di insulto religioso, ma solo se cristiano.

La guerra per l’informazione pubblica subisce un altro smacco, si ripete la competizione anglo-spagnola verso il peggio. Stavolta il Ministro dell’Industria e Comunicazione del Governo "Z" ha deciso di sanzionare la associazione di quotidiani e settimanali cattolici Intreconomia per un video sulla manifestazione dell’orgoglio gay svoltasi qualche settimana fa a Madrid.Le immagini del video sono tratte, tutte, dalla manifestazione di omosessuali e lesbiche madrilene, tra un'immagine e l’altra alcuni "cartelli" a commento pongono domande chiare e commenti concisi sugli atteggiamenti che si vedono nel filmato.

Il governo ha affermato che il messaggio pubblicitario, ha violato una legge che vieta la diffusione di messaggi pubblicitari favorevoli a “discriminazioni basate su razza, sesso, religione, nazionalità, e di opinione”. La pubblicità, però, ha mostrato soltanto il messaggio effettivo degli omosessuali marciando e ballando in parate del Gay Pride Day e ha chiesto alle domande semplici e toccanti: «È questo il tipo di società vuoi?», «Sono questi gli esempi che volete per i vostri bambini?», «Orgoglio gay… Orgoglioso di che cosa?».

L'annuncio ha anche cercato di opporsi al Gay Pride Day, il video si conclude con una sequenza foto che riproducono persone al lavoro, anziani, famiglie, insomma gente che vive la propria giornata normalmente e invitando tutti ad essere orgogliosi degli altri 364 giorni di “orgoglio per gli eterosessuali”.La decisione ci dice che in Spagna c’è una democrazia sui generis, nella quale viene introdotta una "polizia del pensiero". Una sanzione che rappresenta una contraddizione con il principio democratico fondamentale: il diritto di espressione, non la censura, dovrebbe prevalere in una società libera. Gran Bretagna e Spagna purchè… ce se magnano le libertà fondamentali e i valori cristiani.

BELGIO E CHIESA...

IL CASO/ Ecco perché il Belgio massone fa la guerra alla Chiesa

Gianfranco Amato

venerdì 2 luglio 2010

24 giugno 2010, una data destinata a lasciare il segno nei travagliati rapporti tra la Santa Sede ed il Regno del Belgio. Quel giorno, mentre è in corso una riunione della locale Conferenza Episcopale, una trentina di poliziotti fanno irruzione nell’Arcivescovado di Malines-Bruxelles in pieno stile sovietico. I Vescovi presenti vengono trattenuti per nove ore in stato di fermo, previa perquisizione e sequestro dei rispettivi telefoni cellulari. L’intento del blitz, disposto su ordine della magistratura, è quello di rivenire documenti ritenuti utili ai fini di un’indagine su casi di pedofilia. Vengono sequestrati tutti i 475 dossier oggetto di esame da parte di una Commissione indipendente nominata dalla curia. Sarebbe stato sufficiente chiederne l’acquisizione senza il plateale coup de theatre, ma evidentemente i magistrati hanno preferito la ribalta dei riflettori al buon senso.

Giudici e poliziotti, in realtà, puntavano in alto, cercando prove del coinvolgimento diretto di Sua Eminenza il Cardinal Godfried Danneels, la cui abitazione personale non è stata risparmiata dall’onta della perquisizione. Persino il computer del Cardinale è stato sequestrato e messo a disposizione della magistratura. L’ossessione spasmodica di rinvenire presunti dossier segreti ha portato i poliziotti a compiere persino un atto sacrilego. Armati di martelli pneumatici, sono scesi nella cripta della cattedrale di Saint Rombout a Mechelen, ed hanno aperto le tombe dei cardinali Jozef-Ernest Van Roey e Léon-Joseph Suenens, defunti Arcivescovi di Malines-Bruxelles.

La furia giacobina è rimasta però delusa, e la violazione dei sepolcri si è rivelata un’inutile profanazione, perché ciò che è stato rinvenuto nelle tombe divelte ha rivelato la stessa consistenza delle suggestive teorie di Dan Brown: un nulla assoluto. Resta la profonda amarezza di uno spregio che non ha precedenti né durante il regime comunista sovietico, né durante quello nazista. Qualcosa del genere si può forse rinvenire negli efferati episodi anticristiani della guerra civile spagnola. Non proprio un bel precedente per il “cattolico” Belgio.

Che qualcosa di strano stesse accadendo in quel Paese, l’avevo intuito quando il 3 aprile 2009 il Parlamento belga aveva formalmente approvato una «condanna delle dichiarazioni inaccettabili del Papa in occasione del suo viaggio in Africa», superando, quanto ad anticlericalismo, la Spagna zapaterista e la laicissima Francia. Certo il Belgio non poteva, ora, farsi sfuggire l’occasione della crociata antipedofila lanciata contro la Santa Sede, per sferrare un attacco frontale alle istituzioni cattoliche. Il motivo di questo fanatico accanimento ha una chiave di lettura alquanto semplice. In Belgio esiste la più anticlericale e laicista delle massonerie del mondo.

Essere massoni in quel Paese, tra l’altro, è requisito essenziale per accedere e far carriera in magistratura ed in tutte le più alte cariche dello Stato. Da più di centocinquant’anni l’opinione pubblica belga è condizionata dalla pressione ideologica del “libero pensiero”, soprattutto attraverso l’educazione. Due sono i centri di cultura che formano la classe dirigente: l’Université Libre di Bruxelles e la fiamminga Vrije Universiteit Brussel. Entrambe “libere” come il pensiero che lì si insegna.

Ricordo di aver letto di un dossier realizzato da Derk Jan Eppink e pubblicato il 19 agosto 1999 dall’autorevole quotidiano di lingua fiamminga De Standaard, da cui emergeva che tre quarti dei ministri liberali e socialisti del governo federale dell’epoca erano membri di una loggia. I socialisti, circa 10.000 “fratelli”, erano affiliati prevalentemente al Grande Oriente, mentre i liberali, circa 4.000 frammassoni, facevano parte della Gran Loggia.

Liberi muratori erano anche belgi del calibro di Karel Van Miert, ex commissario europeo alla Concorrenza e Willy Claes, già segretario generale della NATO. Quanto è accaduto lo scorso 24 giugno, in realtà, non mi ha meravigliato più di tanto, se non per i metodi stalinisti usati in quell’occasione e per la barbara profanazione di tombe. Non bisogna dimenticare, infatti, l’offensiva anticlericale che il potere massonico belga scatenò nel 1997 contro le associazioni religiose. Fu addirittura istituita, allora, una commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta dal deputato socialista Serge Moureaux, per la lotta alle «pratiques illegale des sectes et le danger qu’elles représentent pour la société et pour les personnes, particulièrement les mineurs d’âge».

Il 28 aprile 1997 la commissione depositò il famigerato “rapporto anti sette”, il quale conteneva una lista di 189 «sectes dangereuses», nella quale venivano affiancati a movimenti dichiaratamente satanici, anche associazioni cattoliche quali l’Opus Dei e la Comunità di Sant’Egidio, considerate, appunto, sette pericolose. Tutto finì, poi, in una bolla di sapone, ma l’episodio costituì un sintomatico indizio del clima culturale. Laicismo ideologico ed anticlericalismo viscerale costituiscono il milieu della massoneria belga, al punto che essa ha ritenuto di mantenere rapporti internazionali quasi esclusivamente con il laicissimo Grande Oriente di Francia.

Non è un caso, ad esempio, che la “comunione” con le massonerie anglosassoni si sia rotta proprio perché queste ultime (che mantengono, invece, un buon rapporto con le chiese protestanti) hanno contestato ai “fratelli” belgi un anticlericalismo esasperato ed eccessivo. Da questo quadro complessivo della situazione è forse possibile trarre qualche elemento di valutazione in più rispetto a quanto è successo all’Arcivescovado di Malines-Bruxelles dalle 10.30 alle 19.30 del 24 giugno 2010.

FONTE: www.ilsussidiario.net

venerdì 9 luglio 2010

SE LA SPAGNA "INSEGNA"...

L CASO/ L’aborto made in Spagna può far scuola anche in Italia



venerdì 9 luglio 2010


La Spagna ci sorprende ogni giorno per le posizioni che assume: sempre in modo molto chiaro e con grande determinazione. Non è un popolo di chiaro-scuri né tanto meno un popolo in cerca di mediazioni. La sua prerogativa è quella di non lasciare spazio ad ambiguità di sorta: una volta presa una decisione non sono ammessi né distinguo né tentennamenti.

Il suo approccio ai problemi non prevede dubbi. Il suo approccio alle sfide non ammette sconfitte. E non stiamo parlando dei mondiali di calcio e della finale che disputerà domenica contro l’Olanda. Per questo forse basterà Villa, il miglior giocatore in campo di questi Mondiali.

Stiamo parlando delle sue posizioni in merito a quelle che in Italia siamo abituati a chiamare questioni eticamente sensibili o meglio ancora valori non negoziabili. Archiviato ormai definitivamente l’aggettivo con cui da secoli era qualificata: la cattolicissima Spagna, resta solo un modo per definire le sue posizioni attuali.

Non la laicissima Spagna, qualificativo che compete alla Francia per antiva tradizione culturale, ma la laicista Spagna, per quel suo modo arrogante e supponente di accantonare quella ricchezza di valori e di convinzioni che ne hanno fatto una delle Nazioni più impegnate nella evangelizzazione di Paesi di tutta l’America Latina.

Finora in Spagna le donne potevano ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza solo in caso di stupro (fino alla 12esima settimana), di malformazione del feto (22esima) o per grave rischio per la salute della madre (senza limite temporale), motivo al quale si appellava, nel 2008, la quasi totalità delle donne (96,69%).

In Spagna, come in Italia, l’introduzione della legge sull’aborto inizialmente rispondeva a situazioni altamente drammatiche, come appunto la violenza sessuale da un lato e il cosiddetto aborto terapeutico dall’altro. Anche se vale la pena ricordare che il termine aborto terapeutico è un ossimoro, perché non cura proprio nessuno e si limita a procurare la morte di un soggetto che alla nascita potrebbe presentare delle malformazioni, più o meno gravi.

È tristemente noto in Italia il caso di Rossano Calabro, dove più che un feto dobbiamo parlare di un bambino, perché perfettamente in grado di avere una vita autonoma, e lasciato morire in sala parto, senza alcun tipo di assistenza, perché nato con una malformazione oggi perfettamente curabile come il labbro leporino. Ma in Spagna, come in Italia, la giustificazione addotta con maggior frequenza da parte delle donne che ricorrono all’aborto resta quella della salute della madre.

Non tanto la salute fisica quanto piuttosto la salute psichica, ossia quel malessere, a volte realmente molto pesante, che si genera davanti a responsabilità che per le ragioni più varie non ci si sente di affrontare. In Spagna il 96,69% delle donne finora adducevano questa giustificazione, perché in qualche modo dovevano spiegare il perché del loro rifiuto ad accogliere la nuova vita. Oggi nessuno porrà più questa domanda alle donne spagnole; nessuno le inviterà a riflettere, a cercare alternative, a provare a pensare se è possibile garantire anche i diritti del bambino e non solo quelli della madre. Di fatto oggi la donna immaginando di essere più libera, è in realtà più sola anche davanti alla sua coscienza.

Tutti sappiamo come un aborto, qualsiasi siano le cause che hanno indotto una donna ad abortire, pesa sulla sua coscienza con un ricordo che è pressoché impossibile cancellare. Quel bambino non-nato è presente nella memoria, alimenta spesso fantasie tristi e genera una sensazione di colpa che niente e nessuno potrà cancellare. Quel dire e quel dirsi il perché di un gesto aveva comunque il sapore di un tentativo di riconciliarsi con se stesse, di sentirsi dire da un’altra voce che c’erano ragioni ragionevoli per compiere un gesto estremo, come in definitiva è e resta un aborto. Un modo come un altro per essere e per sentirsi meno sole.

Oggi anche questo viene meno e qualcuno può perfino credere che non dovendosi giustificare di fronte a nessuno, la donna possa non doversi giustificare neppure davanti a se stessa e davanti a suo figlio, Perché qualsiasi cosa si dica e si faccia a livello di normativa, ogni donna sa che ciò che aspetta è un bambino, è suo figlio. Il linguaggio popolare, rimasto finora fortunatamente identico, dice semplicemente: aspetto un bambino, da due, tre, quattro, sette settimane. È vero non dovrà più spiegare al medico, all’infermiera, le ragioni della sua decisione, forse non dovrà più sentire un consiglio che potrebbe rimettere in discussione una decisione presa, ma proprio questo silenzio e questa possibile crescente indifferenza, renderà ancora meno umana questa situazione.

La recentissima riforma dell’aborto entrata in vigore il 5 luglio di quest’anno accentua ulteriormente quell’approccio culturale che trasforma un delitto in un diritto, come ha denunciato la Conferenza episcopale spagnola. La nuova legge sull’interruzione volontaria di gravidanza in Spagna prevede infatti che le donne di età superiore ai 16 anni possano abortire entro le prime 14 settimane di gestazione senza dover fornire alcuna spiegazione.

È soprattutto nei confronti delle adolescenti che la legge accelera pericolosamente il passo e perde quella naturale cautela, di tipo affettivo oltre che educativo, tipica della cultura occidentale. Le minorenni possono oggi tenere i loro genitori completamente all’oscuro di quanto intendono fare, se dimostrano che la loro decisione può provocare un grave conflitto familiare. Un conflitto che è probabilmente tutto nella loro mente e nella loro fantasia, e in un certo senso rappresenta la materializzazione delle loro paure e delle loro angosce.

Una ragazza con meno di 18 anni infatti, dopo un breve colloquio con uno psicologo, può interrompere volontariamente la sua gravidanza, assumendosene la piena ed esclusiva responsabilità. Non c’è dubbio infatti che sono ampiamente passati i gravi conflitti familiari di una volta, quelli per cui un genitore avrebbe potuto cacciare di casa una figlia, o punirla con la violenza fisica e morale. Difficile immaginare che la conflittualità tra madre e figlia, o tra padre e figlia nella nostra cultura occidentale raggiunga questa linea di guardia: i genitori possono dispiacersi davanti all’indubbio cambiamento di vita che l’arrivo di un bambino produce in una famiglia, tanto più se la formazione di una nuova famiglia è ancora lontana e perfino improbabile.

Il clima di grande libertà, spinto fino a un permissivismo a 360 gradi, rende possibile che nella mente dei genitori sussista il rischio che una figlia possa restare incinta. La gravidanza delle adolescenti in alcuni Paesi, a cominciare dall’Inghilterra, sta diventando un vero e proprio problema sociale. Ma si illude chi crede che lo si possa risolvere facilitando l’accesso all’aborto. È uno dei segni più drammatici dell’emergenza educativa che attraversa la nostra società e che richiede iniziative molto più ampie e articolate, con un coinvolgimento della famiglia assai maggiore e non una rimozione della famiglia stessa.

L’aborto, depenalizzato in Spagna nel 1985 sulla base di alcuni presupposti, si trasforma esattamente 25 anni dopo in un diritto, per cui la donna non deve dare nessuna spiegazione a nessuno perché nessuno può mettere in discussione il suo diritto individuale a decidere come meglio crede della sua vita. Peccato solo che non ci sia nessuno a tutelare la vita del bambino che è in lei e a nessuno sia permesso condividere con lei ansie e timori, speranze e programmi.

Davanti a questo nuovo “diritto”, per cui non c’è stata nessuna formazione e spesso neppure nessuna informazione specifica, una ragazza giovanissima può impegnare il suo futuro e quello del suo bambino, senza neppure confrontarsi con chi le ha dato la vita e si è preso cura di lei per tanti anni… È un doppio vulnus inferto sia al valore della vita che al valore della famiglia, a conferma -se ce ne fosse bisogno - di come questi due valori marcino sempre in modo strettamente collegato.

Sulle nuove norme, tuttavia pende ancora una sentenza della Corte costituzionale, alla quale si sono rivolti sia il Partito popolare, sia il governo della Navarra. Anche le comunità di Murcia e di Madrid, rette dal Partito popolare, potrebbero decidere di non applicare le nuove norme, almeno finché non si saranno pronunciati i giudici costituzionali. Ancora una volta su questi temi la scelta politica ricalca un tipo di approccio che caratterizza la sinistra, in contrasto con quanto propone non solo una visione cristiana della società, ma anche il semplice diritto naturale.

È singolare come negli ultimi decenni ormai la cultura della sinistra si stia appiattendo sulle posizioni radicali di un individualismo che mentre fa della libertà della donna un principio assoluto e inviolabile, ignora totalmente le istanze del più fragile e del più debole. E questo in flagrante contraddizione con ciò che la scienza e la tecnica ci ricordano giorno per giorno, al punto che ci sono donne che rifiutano di fare un’eco-cardiografia, perché non vogliono né vedere né sentire il battito del loro cuore del loro figlio. Cercano in tutti i modi di porre distanza tra sé e il figlio, spesso senza riuscirci, o comunque dovendo ricorrere ad argomenti sempre più pesanti per giustificarsi nel fondo del loro cuore.

A dimostrazione che la nuova legge presenta articoli per lo meno criticabili, la Suprema Corte spagnola mercoledì scorso ha riconosciuto l’ammissibilità di un ricorso presentato dal Partito popolare, il quale aveva chiesto la sospensione in via cautelativa di otto articoli della legge con la motivazione che violerebbero l’articolo 15 della Costituzione, precisamente quello sul diritto alla vita.

A tal proposito il Governo ha dovuto presentare immediatamente la sua tesi difensiva, per consentire ai Giudici di decidere se procedere alla sospensione cautelare della riforma. Proteste. E nel giorno in cui il Governo presentava la sua linea difensiva è montata una grande protesta popolare davanti alla Corte costituzionale di Madrid. Sabato scorso infatti, molte centinaia di persone sono scese in piazza, rispondendo all’appello di varie associazioni e gruppi politici, per manifestare contro questo pretestuoso ampliamento della legge sull’aborto.

Mentre restiamo in attesa della sentenza della Corte costituzionale spagnola, ci rendiamo conto di come anche noi in Italia non siamo del tutto immuni da rischi di questo tipo, proprio per il tipo di cultura circolante, che mentre inneggia al principio di autodeterminazione, non è in grado di difendere e tutelare con la stessa energia anche il valore della vita, soprattutto quando appare più debole e indifesa. Proprio per questo alla fine di maggio in Italia, in occasione di un ennesimo anniversario della approvazione della legge 194, una cinquantina di parlamentari di tutti gli schieramenti ha indirizzato una lettera ai Presidente delle Regioni, dicendo in buona sostanza:

“Chiediamo ai Presidenti delle Regioni di assumere, in coerenza con gli obiettivi della legge 194/78, un forte impegno di tutela della vita nascente. Chiediamo di farlo nello spirito della legge e con gli strumenti previsti dalla stessa, superando la visione riduttiva che negli ultimi 30 anni ne ha garantito solo una parziale applicazione e ha dimenticato tutte quelle donne che -potendo- avrebbero voluto tenere il proprio figlio, ma si sono sentite sole e incapaci di fronteggiare difficoltà di tanti tipi diversi.

Chiediamo a ogni Presidente di assumere questo impegno nell’anniversario della approvazione della legge stessa, il prossimo 22 maggio, attivandosi concretamente su questi tre obiettivi: potenziare gli attuali consultori o, dove fosse necessario, istituirne di nuovi presso i Centri di medicina materno-infantile e/o presso i distretti socio-sanitari; dotare gli stessi delle risorse necessarie per garantire i servizi di prevenzione e di sostegno a tutte le donne e alle loro famiglie, ascoltando con particolare attenzione quelle donne che, se adeguatamente aiutate,non vorrebbero abortire per aiutarle a risolvere i loro problemi, anche attraverso una sorta di assegno di maternità; facilitare il fatto che i consultori possano avvalersi della collaborazione delle Associazioni di volontariato che si impegnano a garantire un sostegno efficace a tutela della genitorialità”.

Con i tempi che corrono non sembra paradossale dover difendere i vincoli che pone la stessa legge 194 e cercare di applicarne quelle parti finora rimaste nell’ombra mentre avrebbero dovuto diventare il punto qualificante per una esatta applicazione almeno dell’incipit della legge“lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”.

Finora ci hanno risposto solo cinque presidenti di Regione… Attenzione perché la Spagna è vicina…


FONTE: www.ilsussidiario.net

lunedì 5 luglio 2010

RELATIVISMO IMPERANTE

IL CASO/ Dagli Usa alla Scozia i "maestri dell'assurdo" insegnano il relativismo



lunedì 5 luglio 2010


La Scozia è ormai considerata il “cannabis garden” d’Europa. Sono state recentemente scoperte e sequestrate altre 18 piantagioni illegali.

Da quando è partita nel 2006 l’operazione di polizia denominata Operation League, sono state arrestate più di 300 persone (tre quarti delle quali erano di nazionalità cinese), distrutte 275 piantagioni, estirpate più di 128,000 piante, ciascuna capace di produrre 300 sterline di cannabis, per un valore complessivo di circa 40 milioni di sterline. La polizia sostiene che, nonostante i risultati di questi blitz, ciò che si conosce rappresenti soltanto la punta di un iceberg, tanto è profondo e radicato il fenomeno.

Anche sulla qualità della materia prima non mancano aspetti preoccupanti. A causa dell’elevato grado di THC (Delta-9-Tetraidrocannabinolo), infatti, la cannabis oggi coltivata nelle piantagioni scozzesi risulta assai potente e pericolosa.

Secondo Stephen Whitelock, Detective Chief Superintendent e capo della SCDEA, gruppo d’intelligence che si occupa del traffico di stupefacenti, la differenza tra questa nuova versione di cannabis e quella che fumavano gli hippy negli anni ’60, è la stessa che corre tra un bicchiere di purissima vodka ed uno di limonata annacquata.

Resta il fatto allarmante che il fenomeno degli stupefacenti è in fase di espansione.

Se diventa ogni giorno più chiara la gravità della diffusione delle droghe, meno chiare sono le vere cause di questa pandemia. A chi volesse approfondire il tema, consiglio la lettura di un buon libro intitolato “Storia moderna della droga - Dalle utopie alla realtà” (Ed. Pagine, 2010) di Fabio Bernabei, giornalista e scrittore esperto di politiche sociali sulla tossicodipendenza.

Fin dalle prime pagine di quel libro si può comprendere come esista una data di inizio della diffusione di massa delle droghe, e come si possano individuare precise responsabilità a tal proposito. La storia parte dagli anni ’50, quando la Beat Generation, laboratorio della rivoluzione che esploderà nel ’68, sfida il proibizionismo, ma soprattutto la condanna, morale e civile, che considera l’assunzione di droghe, per uso non medico, incompatibile con il rispetto della dignità dell’uomo. Si tratta di una vera e propria sfida culturale.

Interessante è scoprire, poi, come il moderno pensiero relativista individui nelle politiche sulle sostanze psicotrope uno degli elementi per l’attuazione di un cambiamento radicale della società umana, e Allen Ginsberg (Beat generation), come William Burroughs (Movimento hippy), Timothy Leary (Rivoluzione psichedelica) e George Soros (Guerra alla guerra alla droga) non si sono certo nascosti. Al contrario.

Proprio da quello che hanno scritto possiamo comprendere, ad esempio, perché Allen Ginsberg abbia viaggiato per mesi nella giungla sudamericana allo scopo di scovare piante psicoattive e promuoverle tra gli studenti delle università, o perché Timothy Leary abbia sintetizzato droghe psichedeliche per far deragliare i sensi dell’assuntore e ricreare, con nuove coscienze singole e collettive, un uomo nuovo e una nuova società.

La lezione che possiamo imparare, grazie al libro di Bernabei, è che la droga non conosce il successo per la forza di bande criminali o per gli effetti psicotici delle sostanze che la compongono, ma per via dello spaccio di ideologie nichiliste da parte di veri Maestri dell’Assurdo, come opportunamente li ha definiti il Servo di Dio Giovanni Paolo II. La tossicodipendenza rappresenta l’incontrollabile rincorsa del piacere ad ogni costo, in un orizzonte esistenziale di disperato individualismo e di tragico nichilismo.

Per combattere il flagello delle droghe non bisogna tanto puntare alla denuncia delle sue conseguenze nefaste sulla salute. Ciò non ha più alcun effetto deterrente nell’attuale cultura nichilista. E’ invece necessario che ai Maestri dell’Assurdo si oppongano i Maestri della Ragione, capaci di proporre una vita piena di bellezza e di gusto, una vita che sia apertura totale e leale alla realtà, una vita che sia seria di fronte al destino, perché consapevole di avere un compito ed un significato ultimo da raggiungere.

Servono veri educatori, capaci di contrastare il tentativo di stordimento esistenziale dell’uomo contemporaneo.

Anche la droga, in fondo, è un efficace strumento per censurare le domande fondamentali dell’uomo sul significato della vita e della morte. In questo senso, ricorda quel passo dell’Enrico IV, la celebre tragedia shakespeariana, in cui Dora, dopo aver invitato Falstaff ad interrogarsi sulla serietà della propria esistenza e a «rattoppare il suo vecchio corpo per il cielo», si sente rispondere: «Zitta mia buona Dora, non parlare come una testa di morto, non rammentarmi la mia fine». Questo atteggiamento sembra ormai rappresentare il massimo della saggezza per gli uomini d’oggi.

E la droga è uno dei tanti mezzi con cui si tenta di evadere l’impellenza degli interrogativi esistenziali, attraverso il momentaneo ed illusorio trasferimento nella falsa dimensione di un “paradiso” artificiale, destinato a trasformarsi in un inferno reale.

In questo senso possiamo dire, parafrasando lo scrittore polacco Kazimierz Brandys, che una dose di eroina, una striscia di cocaina, una canna di marijuana contengono la percentuale desiderata di irrazionale.

La soluzione, però, non è mai fuggire la realtà. Semmai, è quella di abbracciarla interamente, nella totalità dei suoi fattori, attraverso un uso intelligente e profondamente umano della ragione.


FONTE: www.ilsussidiario.net

SPAGNA: ABORTO SENZA LIMITI

Spagna, l'aborto non ha limiti
Il fronte del "no" spera nei giudici


Gli spagnoli non vogliono una legge che va contro il primo di tutti i diritti umani e abbandona migliaia di donne di fronte alla violenza dell’aborto e di fronte agli interessi di un’industria sinistra». Gador Joya, medico e portavoce dell’organizzazione “Diritto Di Vivere”, è sicura che la grande maggioranza dell’opinione pubblica sia contraria alla liberalizzazione decisa dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero. Lo hanno dimostrato i cortei in piazza, i manifesti pubblici firmati da centinaia di professori universitari e scienziati, i sondaggi pubblicati dalla stampa.

La legge ha spaccato in due la Spagna? Non proprio: in realtà – secondo una delle tante inchieste dedicate al tema – circa il 70% degli spagnoli sarebbero contrari alla riforma di Zapatero. Di questi – particolare non di poco conto – il 25% sono elettori socialisti: anche all’interno del Psoe, il partito del premier, si sono sollevate voci critiche contro una spinosissima norma che permetterà alle sedicenni di abortire in solitudine. Al timone di un Paese travolto da una gravissima crisi economica, con una disoccupazione schizzata alle stelle (oltre la barriera del 20%) e una popolarità in drastico calo, il governo spagnolo ha “strappato” ancora sul terreno etico: una strategia politica che negli scorsi anni – quando l’economia andava ancora a gonfie vele – aveva dato i suoi risultati, consolidando uno zoccolo duro di elettori più radicali o comunque molto giovani.

Ora, però, le cose sono cambiate. Riformare l’aborto non è mai stata una priorità per gli spagnoli, allarmati piuttosto dal rischio di perdere il lavoro o di non riuscire a pagare il mutuo della casa. E se per una fetta di popolazione la nuova legge, semplicemente, non era necessaria, per una buona parte (i cattolici in primis, ma non solo) la normativa è un’assurdità incostituzionale, che priva il nascituro di qualsiasi protezione giuridica.

La parola ora spetta al Tribunale Costituzionale. Decine di organizzazioni pro life si sono date appuntamento, sabato a mezzogiorno, davanti alla sede della Corte: migliaia di persone che hanno chiesto ai magistrati la sospensione cautelare della norma prima della sua entrata in vigore. In attesa dell’analisi del ricorso presentato dal Partito Popolare (centrodestra), il Tribunale Costituzionale potrebbe decidere nelle prossime ore uno stop temporaneo alla legge. Il ricorso si basa, infatti, sull’«irrimediabilità» dell’azione una volta dato il via libero all’interruzione delle gravidanze: Indietro non si potrebbe tornare», dicono i ricorrenti. Ma i precedenti sono pochissimi, l’ipotesi è piuttosto remota. Le associazioni contrarie all’aborto, in qualsiasi caso, non abbandonano la speranza.

«Venticinque anni sono sufficienti, sì alla vita di tutti», era lo slogan della concentrazione di ieri davanti alla Corte costituzionale, in riferimento alla parziale depenalizzazione dell’aborto che venne approvata nel 1985. La nuova legge va bloccata subito, avvertono i pro life: non c’è tempo da perdere, in gioco ci sono migliaia di possibili aborti e «la morte di bambini è irreversibile», una tragedia senza marcia indietro.

L’Alta Corte deve pronunciarsi il prima possibile, sottolinea Teresa Fernadez de Cordoba, magistrato dell’Audienza provinciale di Madrid: la liberalizzazione entro la 14esima settimana lascia «il bimbo nel seno materno senza alcuna protezione». La riforma «è contraria al diritto che tutti hanno alla vita, colpisce la donna e l’obiezione di coscienza dei medici». In poche parole, avverte Alicia Latorre, presidente di ProVida, «non ha nessuna logica perché travolge i diritti fondamentali della persona».
Non è solo una questione etica. La riforma contiene ampie zone d’ombra anche dal punto di vista strettamente giuridico: lo ammettono anche le cliniche abortiste. Alle sedicenni viene riconosciuto il “diritto” di decidere autonomamente sull’aborto, ma poi dovrebbero presentarsi in clinica accompagnate almeno da un tutore. E che succederà se una minorenne abortisce senza avvertire i genitori, e poi questi ultimi scoprono la vicenda? Il medico non rischia in questo caso una denuncia?

Michela Coricelli
fonte: www.avvenire.it