sabato 10 dicembre 2011

AD APPLE QUALCUNO DIFENDE LA VITA




di Rino Cammilleri
07-12-2011


Un lettore mi ha segnalato che sul blog Apple Caffè è apparsa una notizia curiosa: qualcuno, sul suo iPhone 4s, ha chiesto a SIRI (una sorta di assistente virtuale) dov’era la più vicina struttura per aborti. Si vede che l’utente aveva una certa urgenza. Ma l’A.I. (intelligenza artificiale) non ha proferito verbo.

L’interrogante (che chiameremo Josephine, perché questo è il nome che compare nella foto sul blog di cui sopra), insospettita, ha domandato: non sarai mica antiabortista? E il robot questa volta ha risposto, lapidario: I am, Josephine. Io lo sono. La stessa frase, secca, con cui Gesù rispose al Gran Sacerdote nel Sinedrio. Naturalmente, la cosa ha fatto il giro della rete e ha scatenato su Apple l’ira degli abortisti, utenti e non. La ditta si è scusata e ha promesso che provvederà. È, naturalmente, anche imbarazzata, perché il suo robot non era programmato per avere idee sociali, religiose o politiche. Non fatichiamo a crederlo. E poi, qui, non è di questo che vogliamo parlare. C’è pure chi dice che SIRI abbia addirittura fornito l’indirizzo di un consultorio pro-life, nel qual caso c’è da pensare che qualche programmatore burlone abbia architettato la beffa. Le indagini interne della Apple chiariranno l’inghippo. Se c’è.

Già, perché (e qui sarebbe il bello) potrebbe anche non esserci alcun inghippo. E sì, perché non c’è storia che tratti di intelligenze artificiali e non sia pro-vita. Pensiamo alla cinque regole della robotica di Isaac Asimov, la prima delle quali impone alla macchina di salvare la vita umana a ogni costo. Pensiamo a Blade Runner: l’androide Nexus di ultima generazione vuole solo vivere, vuole la vita, vuole più vita. Pensiamo ad A.I. di Spielberg (su idea di Kubrick): il bambino-robot vuole vivere e si ribella alla rottamazione. Ma c’è un racconto più antico, Aquino’s Quest, «Alla ricerca di Aquino». Fantascienza, sì, ma con tratti profetici (come le due famosissime storie che abbiamo menzionato). La riassumiamo. In un lontano futuro il cristianesimo è fuorilegge e i cristiani sono tornati nelle catacombe. Il papa, clandestino, riunisce i suoi cardinali perché corre voce che un tale di nome Aquino predichi il cristianesimo incurante della pena di morte che incombe sul capo di chi osi.

Un prete viene incaricato di mettersi alla ricerca di questo Aquino, per portarlo dal papa. L’uomo, travestito, indaga e, dopo peripezie, trova in una caverna il cadavere di Aquino (il cui nome non a caso rimanda a san Tommaso, il principe dei filosofi cristiani). Ma si accorge che si tratta di un robot sperimentale, l’ultimo prima che venissero proibiti, un’intelligenza artificiale che adesso ha esaurito la sua carica di energia. Come mai un robot si era trasformato in predicatore (irresistibile, tra l’altro)? Semplice: proprio la sua intelligenza perfettamente logica aveva concluso che Dio esiste ed è cristiano. Così, in base alla prima legge della robotica, si era attivato per salvare gli uomini. Morale: prima che la Apple licenzi in tronco i suoi programmatori pro-life, ci pensi bene. Potrebbe trattarsi di un’iniziativa autonoma di SIRI. In fondo, anche nella saga di Terminator i computer si ribellano all’uomo per il suo bene.

SIAMO ALL'ABORTO PER SENTENZA

MILANO - Ha abortito la sedicenne di Trento che incinta del suo ragazzo albanese, voleva tenere il bambino. I genitori si erano rivolti anche alla giustizia per costringerla a interrompere la gravidanza, e forse proprio il colloquio con un magistrato del Tribunale dei minori ha convinto la ragazzina ad accettare. La vicenda, accaduta nella provincia trentina, è stata raccontata dai quotidiani locali ed è rimbalzata anche su i quotidiani nazionali.
LA DECISIONE - Di quel bambino, frutto della relazione della ragazzina con un diciottenne «violento, che spesso la picchiava», i genitori non ne volevano sapere. Ora del ragazzo si sono perse le tracce. La Repubblica scrive che forse è stato convinto ad allontanarsi con una somma di denaro. Il giudice a cui si erano rivolti per costringere la figlia a mettere fine alla gravidanza non si è espresso con alcun provvedimento. Ma avrebbe ugualmente contribuito a convincere la ragazza a seguire il consiglio dei genitori.

QUANDO IL VAMPIRO E' PRO-LIFE

Fonte: http://www.labussolaquotidiana.it/ita/articoli-quando-il-vampiro--pro-life-3829.htm

di Massimo Introvigne
09-12-2011


Breaking Dawn. Prima parte, il film che sta realizzando incassi record in tutto il mondo, è il quarto della serie tratto dalla saga Twilight della scrittrice americana Stephanie Meyer. Com'è avvenuto per Harry Potter, a ogni romanzo corrisponde una trasposizione cinematografica ma il quarto volume ha generato due  film, il che significa naturalmente anche due incassi.
La formula generale di Twilight è nota, e non è nuova: ragazza s'innamora di vampiro, seguono complicazioni. Da quando Lucy Westenra s'innamora del conte Dracula nel romanzo del 1897 di Bram Stoker (1847-1912) la formula non è mai passata di moda. Almeno due serie televisive tuttora in corso e note anche in Italia, True Blood The Vampire Diaries, ne esplorano tutte le varie sfaccettature.
Tuttavia - anche se proprio The Vampire Diaries costituisce già in parte un'eccezione - da decenni alle donne che s'innamorano di vampiri - per non parlare dei vampiri stessi - i romanzieri e gli sceneggiatori attribuiscono una sessualità disinibita e trasgressiva. Twilight ha avuto successo perché rovescia il cliché consueto. Mentre il mondo intorno a lui vive il sesso in modo casuale, il vampiro Edward - che avendo più di cento anni, anche se ne dimostra diciotto, è uomo di un'altra epoca - inizia la liceale Bella [nella foto] a una visione del mondo dove i rapporti prematrimoniali sono sbagliati e occorre attendere l'altare e l'abito bianco.
Forse i ragazzi che si entusiasmano per Twilight accettano da un vampiro una lezione che rifiuterebbero se il protagonista fosse, che so, un comune studente cattolico, ma il successo dei libri e dei film mostra che la trasgressione ha ormai stancato molti giovani e che la morale tradizionale attrae perché è rimasta l'ultimo vero anticonformismo. Per questo la Commissione cinematografica della Conferenza episcopale americana ha dato un giudizio positivo sui film, definendo Edward «un vampiro gentleman». 

Il quarto film che è arrivato ora nelle sale è un po' diverso. Se nei precedenti è Edward a insegnare a Bella un valore morale, la castità prematrimoniale, qui è Bella a impartire a Edward una lezione molto delicata sul tema dell'aborto. All'inizio del film la strana coppia - un vampiro e un'umana - finalmente si sposa, e va in Brasile per la luna di miele. Qui accade l'imprevisto. Normalmente una coppia del genere non dovrebbe essere feconda, ma Bella si scopre incinta. La prima reazione di Edward è la fuga di fronte a questa gravidanza che secondo gli antichi testi potrebbe produrre un mostro. Propone l'aborto, e sia i vampiri sia i loro nemici storici - i lupi mannari - cercano di persuadere Bella ad abortire. Ma Bella rifiuta e s'indigna quando altri parlano prima di "cosa" e poi di "feto". Accetta solo la parola "bambino". 

La vicenda diventa ancora più drammatica quando il bambino si rivela così "diverso" - una chiara metafora del rischio di aborto che colpisce particolarmente i bambini diagnosticati a vario titolo come "diversi" - da rendere chiaro che Bella morirà se cercherà di portare a termine la gravidanza. Edward, cui Bella spiega che - anche se morisse - potrà ancora amarla nel bambino che nascerà, risponde supplicando ancora una volta Bella di abortire: non potrà amare, afferma, un bambino responsabile della sua morte. Ma Bella tiene duro, dà alla luce una bella bambina - quanto eccezionale sarà rivelato nel prossimo film - e alla fine non muore, ma è trasformata in vampiro. 

Non so se l'autrice di Twilight, Stephanie Meyer, conosca la storia di santa Gianna Beretta Molla (1922-1962), che preferì morire e dare alla luce la quarta figlia piuttosto che abortire e salvarsi. Ma Bella si trova nella stessa situazione della santa italiana, e anche lei sceglie la vita. L'insistenza sulla vita e la famiglia non è casuale, perché la Meyer è una devota mormone e le allusioni al mormonismo, per quanto non percepibili dal lettore italiano medio, sono piuttosto numerose nei suoi libri. Dopo avere abbandonato la poligamia - che resta praticata solo da gruppi scismatici - nel 1890 la comunità mormone ha fatto della difesa dei valori familiari uno dei suoi capisaldi e, nonostante idee religiose evidentemente lontane, negli ultimi decenni cattolici e mormoni si sono spesso trovati fianco a fianco nella battaglia contro l'aborto. 

Che un film di vampiri - per di più, come qualcuno ha scritto negli Stati Uniti, di vampiri mormoni - dia una mano alle posizioni pro life potrà sembrare singolare. Ma in questo momento ogni aiuto nella battaglia per la vita, da qualunque parte venga, è bene accetto. E se avete figli adolescenti entusiasti di Twilightaiutateli a riflettete sul tema antiabortista di Breaking Dawn, anziché concentrarsi sulle sole avventure più spettacolari di vampiri e lupi mannari.

lunedì 9 maggio 2011

EUTANASIA: NON SOLO "CASI ESTREMI" di Lorenzo SCHOEPFLIN

Che cosa avviene quando, anche solo in pochi casi, si aprono le porte all’eutanasia di Stato? Questo: se eutanasia e suicidio assistito sono legali, si diffondono. Inarrestabili. E l’eccezione diventa regola

Che cosa accade quando si aprono le porte all’eutanasia di Stato? Che cosa succede se, anche solo in casi estremi, si legalizza il suicidio assistito? Numeri e fatti di cronaca alla mano, in questa sede il tentativo sarà quello di illustrare quali sono le ricadute a livello sociale e culturale derivanti dall’approvazione di leggi che rendono non perseguibili quei soggetti che provocano la morte di un paziente direttamente o collaborando attivamente al suo suicidio. Per far questo, risulta utile riferirsi ad esperienze ormai collaudate, quali quelle di alcuni Stati che da anni hanno legalizzato questo tipo di pratiche. Statistiche e cronache quotidiane, dietro ad un’apparente e fredda neutralità, nascondono i sintomi di una cultura che, laddove eutanasia e suicidio assistito sono legali, tende sempre in misura maggiore verso la loro accettazione.

Ha cominciato l’Olanda…
L’Olanda è stata la prima nazione europea a legalizzare l’eutanasia e il suicidio assistito nel 2002, seguita a ruota, nello stesso anno, dal Belgio. E, proprio dall’Olanda, giunge, a febbraio 2010, una notizia davvero incredibile: sono state raccolte 112.500 firme per costringere il Parlamento a discutere di una proposta che prevede il diritto di accedere all’assistenza al suicidio a tutti quegli anziani che, compiuti i 70 anni di età, si sentano «stanchi di vivere». Attualmente, nei Paesi Bassi, il suicidio assistito è possibile solo per soggetti per i quali si accerta una sofferenza insopportabile. È evidente quale tipo di salto in avanti costituisca questo tipo di iniziativa, partita dall’associazione Uit Vrije Wil (traducibile come «libera volontà», «autodeterminazione»).
Per i promotori, gli ultrasettantenni devono poter suicidarsi liberamente e con la garanzia di un’assistenza medica statale una volta che arrivino alla conclusione che «il valore e il significato della loro vita sono così diminuiti da preferire la morte». I primi firmatari della proposta sono storici attori della politica e dell’associazionismo olandese, da sempre impegnati a favore della “dolce morte”, a testimonianza del fatto che una volta ottenuto il via libera per eutanasia e suicidio assistito, per alcuni questo è solo un punto di partenza verso continui “aggiornamenti”. Hedy d’Ancona, già europarlamentare socialista e Ministro della salute, nonché militante femminista, fa del suo appoggio alla Uit Vrije Wil una bandiera al pari di quella per l’emancipazione della donna. Tra i sostenitori della proposta c’è anche Eugene Sutorius, presidente della Nvve, l’Associazione olandese per il diritto a morire, che ha dichiarato al quotidiano Volkskrant che i timori di abusi sono infondati. Dobbiamo credere alle rassicurazioni di Sotorius? Vediamo anzitutto le statistiche ufficiali: 1.815 casi di morte procurata nel 2003, 1.886 nel 2004, 1.933 nel 2005, per poi proseguire con un aumento costante ogni anno, fino a raggiungere i 2.331 casi del 2008. Per il 2009, secondo quanto riportato dal quotidiano Telegraaf, la cifra si aggirerebbe intorno ai 2.500 casi. Sono poi molte le controversie che riguardano l’eutanasia. Un esempio è quello del presidente dell’associazione SVL (acronimo olandese di «Società per la vita volontaria»), responsabile della somministrazione di una dose letale di pentobarbital ad una donna dopo che il medico si era rifiutato di concedere l’eutanasia non avendo riscontrato una sofferenza insopportabile. Il 3 giugno 2009, il quotidiano Volkskrant registrava una pericolosa tendenza, proprio in merito ai casi sempre più frequenti di mancato rispetto delle direttive dei medici (gli unici che in Olanda hanno potere decisionale in merito), scrivendo: «L’eutanasia in Olanda sembra diventare sempre più accettata». Tanto accettata e “normale”, che la Uit Vrije Wil chiede anche che non sia più necessario l’intervento diretto di medici, sostituendoli con personale certificato, qualificato ed abituato ad avere a che fare con malati prossimi alla morte (infermieri, psicologi e addirittura cappellani). Non solo dunque veri e propri abusi, ma anche diffusione sempre più capillare di una mentalità che riconosce la morte come un diritto per chi la desidera espressamente e come una liberazione per chi conduce una vita che da terzi viene giudicata non degna.
Non dimentichiamo poi che in Olanda si sono registrate altre due tappe della corsa alla “dolce morte”: nel 2005 è stato elaborato il Protocollo di Groningen, col quale il dottor Eduard Verhagen ha sistematizzato l’eutanasia sui neonati, mentre nel 2006 si è cominciato a discutere sull’opportunità di estendere, a discrezione dei medici, l’eutanasia ai malati di mente. Ricapitolando: si parte dalla legalizzazione dell’eutanasia in casi ben definiti e si arriva ad una sua estensione sia per quanto riguarda i soggetti interessati (neonati, anziani), sia relativamente ai requisiti necessari (dalla malattia terminale al semplice desiderio di morire perché “stanchi di vivere”).

… seguita dal Belgio
In Belgio, l’escalation è stata del tutto analoga. La legge sull’eutanasia fu approvata nel maggio 2002 e già tre anni dopo i medici di base potevano acquistare nelle farmacie il cosiddetto “kit per la dolce morte”: foglietto delle istruzioni, cinque fiale e siringhe usa e getta. Una facilitazione procedurale ottenuta grazie alla pressione di molti medici che, statistiche alla mano, mostrarono come il 41% delle eutanasie fosse praticato tra le mura domestiche. Perché, chiesero i medici, il paziente che sceglie di morire a casa deve essere costretto ad attese più lunghe di quello che va in ospedale? Nel 2008, poi, la Commissione Giustizia e Affari sociali del Parlamento belga ha discusso la proposta di concedere ai genitori di minorenni il diritto di scegliere la morte per i figli nel caso in cui questi ultimi non posseggano le capacità di discernimento necessarie. Oltre a questo, la stessa Commissione ha suggerito di ritenere valide le dichiarazioni anticipate di trattamento (il cosiddetto “testamento biologico”) anche per coloro che, per sopraggiunti danni cerebrali, siano impossibilitati a confermare le volontà espresse in precedenza. Anche nel caso del Belgio, come si nota, si parte da una legge con precisi paletti e si arriva all’estensione dei criteri e alla facilitazione dell’accesso all’eutanasia.
Una facilitazione estrema di cui ha potuto “beneficiare” Amelie Van Esbeen, una donna novantatreenne che, nel marzo 2009, ha ottenuto di poter morire con l’aiuto dei medici nonostante non fosse affetta da una malattia terminale o da una sofferenza insopportabile. Requisiti, questi, richiesti dalla legge belga, ma che sono stati aggirati per il semplice fatto che la donna era così determinata a morire da aver iniziato uno sciopero della fame. Nello stesso periodo il quotidiano belga Le Soir, basandosi sulle conclusioni di un articolo apparso sull’American Journal of Critical Care, parlava di eutanasia sui minori come di una realtà ormai ampiamente diffusa in Belgio.

Negli USA
Non mancano altri numerosi esempi, anche extraeuropei, che mostrano quanto pericoloso sia aprire le porte ad eutanasia e suicidio assistito. Tra questi, merita senza dubbio una citazione il caso dello Stato di Washington, negli Stati Uniti, dove l’approvazione della legge che consente di ottenere l’assistenza al suicidio è del 2008. Recente, dunque, ma dagli effetti già ben chiari: nel 2009, le persone suicidatesi con l’aiuto dei medici sono state 36. Il dato più impressionante è quello circa le motivazioni che hanno spinto le persone a richiedere l’assistenza al suicidio. Quasi uno su quattro tra coloro che hanno fatto tale richiesta è stato spinto, tra varie motivazioni, anche dalla preoccupazione di diventare un peso per i propri familiari.
Dunque, oltre al dimostrato innesco di una tendenza ad allargare indiscriminatamente il ventaglio di coloro che si vuole abbiano diritto ad eutanasia e suicidio assistito, la legalizzazione di queste pratiche produce un altro effetto devastante: i malati, gli anziani, i sofferenti, coloro che in misura maggiore dovrebbero veder garantito il diritto all’assistenza e alla fratellanza, sono portati a sentirsi un problema insopportabile per la «società dei sani» e a chiedere la morte.
È questa libertà? È questa autodeterminazione?

pubblicata da Redazione Il Timone il giorno mercoledì 4 maggio 2011 alle ore 13.19

lunedì 28 marzo 2011

Eutanasia, tentazione globale

BIOETICA E POLITICA

Eutanasia, tentazione globale

Mentre in Italia la legge sulle scelte di fine vita muove i primi passi nell’aula di Montecitorio – dopo l’approvazione di due anni fa al Senato –, in alcuni Paesi torna d’attualità l’eutanasia attraverso episodi di cronaca che riaccendono il confronto nell’opinione pubblica. Come nel nostro Paese, sono fatti drammatici a segnare la discussione sulla libertà e i suoi limiti, sulla disponibilità o meno della vita umana, sulla sua dignità a fronte di situazioni estreme. È la conferma che, lo si voglia o no, la questione dei limiti da porre per legge a ogni possibile deriva eutanasica o – viceversa – del via libera a pratiche che la assecondano si pone in tutto il mondo e richiede chiarezza di idee sui princìpi come sugli strumenti. Sapere cosa accade in India o in Australia non è un modo per soddisfare una curiosità, ma per essere consapevoli che il principio dell’inviolabilità della vita umana nella sua fase terminale viene messo in questione ovunque. E che ovunque – come anche in Italia – c’è chi si batte per custodirlo.

INDIA: LA CORTE SUPREMA «SALVA» ARUNA DALLA MORTECorte Suprema indiana – massima autorità giudiziaria del Paese – con un storica sentenza ieri ha deciso di respingere la richiesta di eutanasia per un’infermiera che da 37 anni vive in stato vegetativo. La decisione del massimo tribunale è stata presa a seguito di una richiesta formulata per Aruna Shanbaug, 63 anni, che dal 1973 è ricoverata al Kem Hospital di Mumbai per lo stato vegetativo nel quale è caduta dopo che un minorenne, nel tentativo di violentarla all’interno dello stesso ospedale, aveva stretto attorno al suo collo una catena di acciaio che le interruppe l’afflusso di ossigeno al cervello. Emanando la sentenza, la Corte si è congratulata con l’ospedale e i suoi operatori per «l’affettuosa attenzione» dedicata alla donna. «La Chiesa è soddisfatta e sollevata dal fatto che la Corte abbia respinto la richiesta di eutanasia» ha dichiarato ad Avvenire il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale indiana.

Il caso ha avuto grande rilievo sulla stampa indiana dopo che il governo federale aveva categoricamente respinto la possibilità di eutanasia, opponendosi alle raccomandazioni emanate dal Consiglio legislativo nazionale dirette ad autorizzare i malati terminali alla scelta di poter porre volontariamente fine alle proprie sofferenze. Il procuratore generale dello Stato, G. E. Vahanvati, ha chiarito che i criteri occidentali sull’eutanasia non possono essere accettati dalla cultura e dal comune sentire dell’India, specificando nella sua arringa di opposizione alla richiesta che «noi non spingiamo verso la morte i nostri genitori o i nostri figli, anche se malati terminali. Chi può decidere se qualcuno deve vivere o morire? Chi può sapere se domani potrà esserci una cura per qualcosa ritenuto oggi clinicamente incurabile? E inoltre, una decisione in senso contrario non frustrerebbe la ricerca medica a favore della vita?».

Non appena giunta la notizia del no alla "dolce morte" – proposta da alcuni amici dell’infermiera che desideravano per lei «la fine delle sofferenze e il diritto a una morte dignitosa» – le colleghe e il personale del Kem Hospital hanno festeggiato davanti a fotografi e telecamere la «vittoria». Anche il rappresentante legale del Kem Hospital, che per 37 anni ha curato Shanbaug nonostante il totale disinteresse della famiglia, si era opposto alla domanda di eutanasia.

Il rigetto della richiesta ha però anche avuto qualche ombra. Dichiarando che «l’eutanasia attiva è illegale», la Corte Suprema infatti ha affermato di non essere contraria a una «eutanasia passiva» che potesse permettere ai malati terminali una morte controllata, nei modi da essa stessa stabiliti. Questa nota del tribunale al suo verdetto ha «deluso» il cardinale Gracias, che ha spiegato come «autorizzare qualcuno a morire equivalga ad accondiscendere al suo volersi togliere la vita». Il distinguo della Corte si è infatti concretizzato in una raccomandazione al governo affinché emani una regolamentazione legislativa che ponga rigide regole all’«eutanasia passiva» controllata dai tribunali.

Veerappa Moily, ministro della Giustizia indiano, si è mostrato molto cauto sulle raccomandazioni della Corte, affermando che «il diritto alla vita è intrinseco alla persona umana, e dunque è indispensabile un approfondito dibattito in materia». Pur prendendo atto dell’esistenza di «considerazioni umanitarie» a supporto delle richieste di eutanasia, ha poi ribadito che «essa non deve diventare strumento di morte». Anto Akkara

SPAGNA: MADRID LAVORA ALLA «FINE DEGNA»
Spagna si prepara ad approvare una nuova legge sulle cure palliative, ma ci sono vari ingredienti che contribuiscono a un clima di confusione. Qual è la finalità della legge? L’obiettivo annunciato dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero pare nobile e urgente: garantire le giuste cure palliative ai malati terminali, assistere le loro famiglie, appoggiare infermi e parenti durante una fase difficilissima riconoscendo loro il diritto all’informazione e al rifiuto di ogni accanimento terapeutico. Ma alla ricetta spagnola vanno aggiunti altri elementi. In primis molta ambiguità linguistica: nel Paese quando ci si riferisce alla norma in cantiere si parla di «morte degna» (eufemismo che sottintende l’eutanasia). L’esecutivo di Zapatero ha detto esplicitamente che non ha intenzione di legalizzare l’eutanasia, ma al termine dell’ultima legislatura i socialisti hanno inserito questo tema nella loro campagna elettorale. Il timore sollevato da numerose organizzazioni per la vita è proprio questo: la legge sulle cure palliative non sarà un primo spiraglio per aprire le porte – in futuro – a una vera e propria normativa che legalizzi l’eutanasia?

Gli ultimi a fare riferimento a questo spinoso argomento sono stati i vescovi iberici. Al termine della 97esima assemblea plenaria, la settimana scorsa, il portavoce della Conferenza episcopale monsignor Antonio Martinez Camino ha ricordato che la legge deve «rispettare il diritto fondamentale alla vita di tutte le persone»: una nuova condanna dell’eutanasia e un appello alla difesa dei più deboli, malati o non nati. Secondo Gador Joya, portavoce della piattaforma associativa «Diritto di Vivere», è tutta una questione di strategia: dopo la valanga di critiche che hanno travolto la riforma dell’aborto (come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di piazza), il governo di Zapatero non avrebbe osato presentare «direttamente una legge per depenalizzare l’eutanasia. Ma bisogna restare vigili, perché stanno cominciando a introdurla». L’esecutivo di Zapatero, secondo Joya, sta facendo «un pericoloso gioco linguistico per mascherare i primi passi verso l’introduzione dell’eutanasia in Spagna». In Parlamento i socialisti hanno assicurato che «non verrà legalizzata né l’eutanasia né il suicidio assistito» (come invece reclama la sinistra radicale). Ma una fetta della società spagnola si chiede preoccupata: fino a quando? Michela Coricelli

STATI UNITI: RACHEL NON PUO' PERMETTERSI IL SONDINO, IL GIUDICE LO STACCA
Per quanto assai controversa, negli Usa la sospensione di idratazione e nutrizione ai pazienti in stato vegetativo viene purtroppo praticata anche quando questi non hanno lasciato dichiarazioni anticipate di trattamento. Terri Schiavo divenne un caso solo perché le decisioni prese dal marito, legale rappresentante, trovarono l’opposizione dei genitori nei tribunali. Ma in questi giorni un altro caso sta mostrando i pericoli che può porre l’identificazione del "miglior interesse" del paziente da parte del legale rappresentante.

Rachel Nyirahabiyambere è una maestra di 59 anni, sopravvissuta al genocidio del Ruanda e a una lunga fuga nella giungla del Congo. Dal 2008 la donna vive negli Usa grazie a un permesso di soggiorno fattole ottenere dai figli, già residenti in America come rifugiati. Per assistere i nipotini Rachel ha rinunciato a un lavoro e all’assicurazione sanitaria e, risiedendo negli Usa da meno di cinque anni, è esclusa anche dal programma «Medicaid». Tutto è andato bene fino ad aprile 2010, quando un’emorragia cerebrale l’ha fatta precipitare nel coma e poi in stato vegetativo. Terminata la fase acuta, l’ospedale della Georgetown University di Washington ha cercato di dimetterla ma i figli non erano in grado di garantirle assistenza a casa e nemmeno di pagarle il ricovero in una residenza sanitaria. Quando anche la proposta di rispedirla in Ruanda è stata rigettata, il giudice ha nominato in dicembre una legale rappresentante, Andrea Sloan. Malgrado le proteste dei figli, la Sloan ha disposto il trasferimento di Rachel nella sezione per malati terminali di una residenza sanitaria, mentre l’ospedale (d’ispirazione cristiana) ha accettato di farsi carico delle spese per la degenza. Ma il 19 febbraio la residenza sanitaria ha sospeso la nutrizione della paziente e da due settimane Rachel aspetta la morte. Il New York Times, che ha scoperto il caso, ha criticato la mancanza di cuore del sistema sanitario americano riaprendo la discussione sulle controverse clausole per l’assistenza ai malati terminali previste nella riforma sanitaria di Obama, costretto a promettere a suo tempo che «alla nonna non sarà stata staccata la spina».

La Sloan ha risposto che, in assenza di dichiarazioni anticipate, toccava ai familiari dimostrare che Rachel avrebbe preferito continuare a vivere in quelle condizioni. Il figlio ha ribattuto che «nella nostra cultura noi non condanneremmo una persona a morire di fame», ma la Sloan gli ha rinfacciato che la nutrizione assistita non fa parte della cultura africana.

Per difendere il profitto delle strutture sanitarie non si è esitato a ribaltare la presunzione dell’esistenza di un istinto a vivere, salvo dimostrazione del contrario: una presunzione che, in assenza di chiare manifestazioni di volontà, suggerisce di optare per la vita, visto che l’altra soluzione è irreversibile. Si dirà che una simile vicenda in Italia non sarebbe possibile, perché l’assistenza non le sarebbe stata negata. È vero: l’anelito solidaristico da noi è molto più forte. Tuttavia, proprio mentre alla Camera inizia la discussione sulle Dat, forse è lecito interrogarsi sui poteri del «fiduciario»: infatti se non passasse la clausola per la quale le decisioni debbono avere «come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace», potremmo presto accorgerci che, invece del «migliore interesse» (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita.  
Gian Luigi Gigli

AUSTRALIA: IL DOTTOR MORTE NITSCHKE CI RIPROVA
Nonostante in Australia la legalizzazione dell’eutanasia non compia passi avanti – in Australia del Sud e in Tasmania sono state recentemente bocciate leggi in materia – Philip Nitschke (detto «dottor morte») non si arrende. Il direttore di Exit International, l’organizzazione che si batte a livello mondiale per la "dolce morte", ha reso nota l’intenzione di realizzare una clinica dove trovare l’opportuna assistenza per poter morire. Secondo Nitschke la legalizzazione dell’eutanasia in Australia è solo questione di tempo: dunque presto ci sarà bisogno di una struttura ad hoc. La clinica dovrebbe sorgere ad Adelaide o a Hobart e non si propone di procurare la morte del paziente all’interno dei propri locali: «I pazienti riceveranno le informazioni e le sostanze necessarie per porre fine ai propri giorni a casa propria», ha dichiarato Nitschke.  
 
Lorenzo Schoepflin

Ho visto quel bambino sbriciolarsi e sono diventata pro-life

Questa bella testimonianza è un’ennesima conferma di come le multinazionali della morte come Planned Parenthood prosperino sulla menzogna e sulla falsificazione della realtà. D’altro canto la verità prima o poi si palesa a chi la cerca con cuore sincero...

Direttrice di Planned Parenthood si dimette dopo avere assistito all’ecografia di un aborto

L’ex direttrice di una clinica di Planned Parenthood nel sudest del Texas dice di avere avuto un “cambiamento di cuore” dopo avere visto un aborto il mese scorso, ha lasciato il suo lavoro e si è unita ad un gruppo pro-life per pregare fuori dall’edificio.
Abby Johnson si trova fuori dalla clinica di Planned Parenthood di Bryan (Texas) insieme a Shawn Carney di Campaign for Life.

Abby Johnson ha accompagnato diverse donne dalle loro auto alla clinica negli otto anni in cui ha fatto volontariato e lavorato per Planned Parenthood a Bryan (Texas). Ma dice di aver capito che era ora di andarsene dopo avere visto un feto “sbriciolarsi” mentre veniva risucchiato fuori dall’utero di una paziente a settembre.
“Mentre lavoravo da Planned Parenthood ero estremamente pro-choice”, ha detto la Johnson a FoxNews.com. Ma dopo avere visto il funzionamento interno della procedura per la prima volta su un monitor ad ultrasuoni “direi che c’è stata una conversione definitiva nel mio cuore… una conversione spirituale.”
La Johnson ha detto di essersi disingannata del suo lavoro dopo che i suoi capi l’avevano spinta per mesi ad aumentare i profitti effettuando sempre più aborti, che costano alle pazienti dai 505 ai 695 dollari.
«Ad ogni incontro che avevamo ci dicevano: ‘non abbiamo abbastanza denaro, non abbiamo abbastanza denaro, dobbiamo continuare a fare aborti’» ha detto la Johnson a FoxNews.com. «È un affare che dà molti soldi ed è per questo che vogliono aumentare i numeri».
«Planned Parenthood è focalizzata sulla prevenzione» ha scritto Diane Quest, National Media Director del gruppo; «in tutta la nazione, più del 90% del servizio sanitario fornito dalle cliniche di Planned Parenthood è di natura preventiva», spiegando che «il cuore della missione dell’organizzazione è aiutare le donne a pianificare gravidanze sane e prevenire gravidanze indesiderate.»
Ma la Johnson ha detto che i suoi capi le dissero di cambiare le sue “priorità” e di concentrarsi sugli aborti, che rendevano più denaro in un momento in cui la recessione li stava danneggiando.
«Per loro non ci sono molti soldi per l’istruzione» ha detto. «Non ci sono tanti soldi per la pianificazione familiare perché c'è l’aborto.»
Senza un medico fisso, ha detto, la sua clinica effettuava aborti solo due giorni al mese, ma il medico poteva effettuare da 30 a 40 procedure ogni giorno in cui era presente. La Johnson ha stimato che ogni aborto poteva fruttare alla filiale circa 350 dollari, arrivando fino a più di 10'000 dollari al mese.
«La maggior parte del denaro andava alla clinica», ha detto.
La Johnson ha detto di non avere mai ricevuto ordini di aumentare i profitti per email o lettera, e di non avere modo di provare le sue accuse sulle pratiche effettuate alla filiale di Bryan. Ha dichiarato a FoxNews.com che le pressioni le venivano attraverso le interazioni personali con il suo direttore regionale dal più grande ufficio di Houston.
Ha detto di essersi trovata coinvolta con la clinica “per aiutare le donne e... [fare] la cosa giusta”, e l’idea di rastrellare denaro le sembrava contraria a quella che pensava fosse le missione della organizzazione fondata 93 anni fa.
«Idealmente il mio obiettivo come direttrice della clinica è che il numero di aborti non aumenti» perché «fornisci così tanta pianificazione familiare e informazioni in modo che non ci sia una richiesta di aborti»
«Ma questo non era il loro obiettivo» ha detto.


Di seguito l’intervista rilasciata il 7 novembre da Abby Johnson a Mike Huckabee di FoxNews channel

MIKE HUCKABEE: Bene, lei ha aiutato molte donne ad abortire, ma ora è una forte sostenitrice della causa pro-life e partecipa alle manifestazioni di protesta proprio davanti alla clinica per cui lavorava. Diamo il benvenuto alla ex direttrice di Planned Parenthood, Abby Johnson, da Bryan College Station, Texas. Abby, è davvero bello averla qui.
ABBY JOHNSON: Grazie.
M.H. Abbiamo chiesto a Planned Parenthood di fare una dichiarazione. Abbiamo chiesto loro di essere presenti e raccontare la loro versione della storia. Abbiamo questa dichiarazione che voglio rendere pubblica. Hanno detto: «Planned Parenthood rispetta le credenze di ognuno sulla più personale tra le questioni mediche, e Planned Parenthood rimane completamente impegnata ad assicurare che ogni donna che affronta una gravidanza indesiderata conosca tutte le sue possibilità. Planned Parenthood è impegnata soprattutto sulla prevenzione. In tutta la nazione, più del 90% del servizio sanitario fornito dalle cliniche di Planned Parenthood è di natura preventiva».
Abby, il mio giudizio sulla loro dichiarazione è che loro prevengono qualche cosa. Prevengono la nascita, non le malattie. Non c’è nessuna malattia in una gravidanza. Malattia vuol dire stare male. Non stai male quando hai un bambino.
A.J. No.
M.H. Quando lavorava da Planned Parenthood, le sembrava che la cosa centrale fosse la cura della salute e la prevenzione della malattia?
A.J. No, è prevenzione, cioè, la maggior parte è prevenzione della gravidanza. Ed è così che sono rimasta coinvolta.
M.H. La prima volta.
A.J. La prima volta.
M.H. Per aiutare la gente a non avere una gravidanza indesiderata.
A.J. Esatto. Questo è proprio il motivo per cui sono rimasta coinvolta. Ma ho scoperto presto che uno dei loro obiettivi era fare denaro. E la maniera per fare denaro è aumentare il numero degli aborti che fanno.
M.H. Lei stava lavorando in realtà, prestando aiuto ed assistenza ad un aborto, e ha visto sul monitor dell’ecografo il processo dell’aborto. Mi dica, che cosa ha visto mentre l’ecografo stava funzionando ed era in corso l’aborto?
A.J. Beh, sono stata chiamata nella stanza per prestare assistenza durante una procedura. Ed era in realtà una procedura abortiva guidata dagli ultrasuoni, che non è comune nei centri di Planned Parenthood perché è una procedura abortiva più lunga, e i centri di Planned Parenthood cercano di fare più procedure possibili, così non ci mettono molto tempo per ogni procedura. Ma per una qualche ragione questo medico aveva deciso di effettuare una procedura guidata dagli ultrasuoni su questa donna in particolare. E così fui chiamata ad aiutare. Il mio compito era tenere la sonda a ultrasuoni sulla pancia di questa donna cosicché il medico potesse vedere l’utero sullo schermo. E quando ho guardato lo schermo ho visto un bambino sullo schermo. La donna era incinta di circa 13 settimane in quel momento. E ho visto un profilo laterale completo. Ho visto dal volto ai piedi sull’ecografo. E ho visto la sonda entrare nell’utero della donna. E in quel momento ho visto il bambino che si muoveva e cercava di andare via dalla sonda.
M.H. Cercava di allontanarsene. O mio Dio.
A.J. Sì, è ho pensato: «Sta lottando per la sua vita», ed ho pensato: «È vita, voglio dire, è vivo».
M.H. Fino a quel momento, Abby, non le era sembrato così a lei che era capace di usare parole come “feto” e “tessuto”, è molto diverso rispetto a quando ha visto la forma riconoscibile di un bambino.
A.J. Era vivo.
M.H. Che cosa ha fatto? Ha detto qualcosa in quel momento al medico?
A.J. No, cioè, la mia mente stava correndo, il mio cuore batteva all’impazzata. E pensavo solo: «Oddio, fa’ che finisca». E poi, improvvisamente, era tutto finito, in un batter d’occhio. E ho visto il bambino letteralmente sbriciolarsi, ed era finito. E allora ho lasciato cadere la sonda a ultrasuoni. E poi ho compreso, «O mio Dio, non sto tenendo la sonda a ultrasuoni», e allora ho messo la sonda a posto. E tante cose mi passavano per la mente, pensavo alla mia figlia che ha tre anni, pensavo alla bella ecografia che ho fatto di lei, pensavo a come era perfetta quell’ecografia quando aveva 12 settimane nell’utero. E pensavo: Che sto facendo, che sto facendo qui? E avevo una mano sulla pancia di questa donna e pensavo: C’era vita qui dentro, ed ora non c’è. E...
M.H. Lei stava letteralmente tenendo la mano al di sopra, al di sopra dalla sua pancia in quel momento.
A.J. Sì.
M.H. Ed ha capito che ciò che c’era sotto la sua mano un momento prima era vita ed era andata via?
A.J. Sì.
M.H. Mio Dio. Per altro, la donna ha visto qualcosa di questo? poteva vedere lo schermo?
A.J. No, era sedata.
M.H. La gente non vede mai che cosa capita a loro.
A.J. No.
M.H. Non posso fare a meno di pensare che se lo vedessero potrebbero correre fuori da queste cliniche.
A.J. Sì, assolutamente. Se quelli che lavorano nella clinica vedessero che cosa stava capitando su quello schermo, correrebbero fuori. Ecco perché l’industria dell’aborto non vuole che vedano. Non vuole che vedano cosa capita davvero durante un aborto. È per questo che Planned Parenthood e tante industrie di aborti non fanno procedure abortive con l’ecografo. Non vogliono che la gente veda che cosa capita davvero nell’utero della donna.
M.H. Penso a cosa lei ha passato. Deve essere uscita quel giorno pensando: Non voglio passare il resto della mia vita a fare carriera qui dentro. Qual è stato il passo successivo? Lei era il direttore esecutivo di quella clinica di Planned Parenthood, e tuttavia non sapeva che cosa succedeva in quelle stanze da quel punto di vista.
A.J. Sì, sono andata a casa quel giorno, e ho preso la decisione quel giorno stesso, e sono andata a casa e ne ho parlato con mio marito. Mio marito è un insegnante, abbiamo una figlia, quindi dipendiamo da due redditi e così abbiamo deciso che sarei tornata a lavorare e che avrei cercato un altro lavoro. Sapevo che avevo due settimane prima che in clinica si facessero altri aborti chirurgici. Così ho avuto due settimane per trovare un altro lavoro. Così andai, la prima settimana fu piuttosto tranquilla. E venne il fine settimana, venne lunedì, ed ero seduta nel mio ufficio e piangevo. Avevo la porta chiusa. E pensavo solamente: Che cosa farò? Che cosa farò? Non voglio stare qui.
M.H. Che cosa ha detto la gente alla clinica quando alla fine ha detto: Me ne vado?
A.J. Beh, nessuno sapeva davvero cosa stava capitando. Non ho potuto parlare a nessuno della clinica perché non sapevano cosa stava succedendo nel mo cuore. Non capivano cosa stava succedendo. Ed ora che lo sanno, Planned Parenthood ha messo un ordine restrittivo su di me ora che sanno che lavoro con il movimento pro-life.
M.H. Spero che quelli di Planned Parenthood mettano un ordine restrittivo su se stessi e smettano di effettuare le terribili procedure che fanno tutti i giorni. Abby Johnson, grazie. Ha avuto molto coraggio a condividere la sua storia. E la ringrazio tanto, e spero che sia un grande avvertimento sul fatto che non possiamo ascoltare solo le parole. Dobbiamo capire le azioni che ci stanno dietro.
A.J. È vero.
M.H. Grazie. Dio la benedica. Che storia meravigliosa.
A.J. Grazie, grazie.M.H. Abby Johnson.


http://www.postaborto.it/2009/11/ho-visto-quel-bambino-sbriciolarsi-e.html

mercoledì 9 febbraio 2011

L'IRA CRUDELE CONTRO LE SUORE

Crudele e ingiusta


Me l’hanno violentata per quindici anni». Lo disse subito, Beppino Englaro, non appena da Udine gli arrivò la telefonata che Eluana era morta, il 9 febbraio di due anni fa. A violentarla – intendeva – non era stato chi le aveva tolto la vita, ma le suore Misericordine di Lecco, cui lui stesso l’aveva affidata due anni dopo l’incidente, nel 1994, quando ormai il futuro di sua figlia si presentava come un’immensa incognita senza spazi e soprattutto senza tempi prevedibili. Un anno? Dieci? Venti? Quanto sarebbe durata la grande incognita? Nella sua mente – ormai lo sappiamo, ce lo ha raccontato decine di volte in conferenze e convegni, e lo ha scritto nei suoi libri – c’era già la determinazione a spegnere quella vita disabile, così diversa dalla sua bellissima figlia, ma nel frattempo chi si sarebbe preso cura di lei?

Lo ricorda lo stesso Englaro, nella lunga intervista apparsa sul "Corriere" di domenica: «Ce la lasci, ce ne occupiamo noi», gli avevano subito aperto le braccia le suore di Lecco. Ma persino questo nelle sue parole ha il tono aspro dell’accusa. Come se quel «ce la lasci» non fosse stato un gesto affettuoso di accoglienza, come se quella figlia le suore gliel’avessero presa con la forza, per assisterla – anche per tutta la vita – al posto suo.

Non racconta, Englaro, che in quella clinica di Lecco l’aveva condotta lui stesso, dopo due anni di ricovero a Sondrio, che non è dietro l’angolo, ma dove quotidianamente sua moglie si recava pur di stare con Eluana. E lì, per la seconda volta, la vita fragile della sua unica figlia veniva raccolta dalle stesse mani: perché proprio alla "Talamoni" ventun anni prima Eluana era venuta al mondo. Ora al mondo continuavano a tenercela, con amore infinito, finalmente a due passi da casa, consentendo a mamma Saturna di poter accudire la sua creatura come lei sapeva e voleva fare.

Ma così la racconta Englaro dalle pagine del "Corriere": «Le suore avevano visto consumarsi anche la mamma di Eluana accanto al suo letto. Volendola lì con loro, erano state un po’ crudeli con Eluana e con sua madre. E io invece dovevo difendere mia figlia e mia moglie». Crudele – è ora di dirlo – è la pervicacia con cui Englaro all’amore risponde col disprezzo, continuando a riversare sulle Misericordine una rabbia incomprensibile.

Descrivere come crudeli quelle mani è sconvolgente e ingiusto. Sarebbero state crudeli con la madre e con la figlia: obbligando l’una a una tenerezza di mamma che lui non capiva più, e l’altra a un attaccamento di figlia, forse la sola forza ancora in grado di tenere acceso il lumino di una coscienza ben nascosta, ma che a volte faceva capolino (i neurologi conoscono bene il fenomeno e lo chiamano appunto "effetto mamma"). Lo scrissero chiaro i medici di Sondrio osservando l’andamento della giovane paziente: se a stimolarla era la madre, Eluana sembrava «rispondere», obbediva cioè «a ordini semplici».

Una notte, appuntano, pronunciò più volte e in modo inconfondibile la parola «mamma»… È vero, finché grazie alle Misericordine ne ha avuto la forza, mamma Saturna ha potuto restare accanto a sua figlia, senza che nessuno la costringesse. È vero, le suore le hanno dato tutto, assolutamente tutto ciò che in genere manca ad altre persone in stato vegetativo a causa dei costi economici, e ad ammetterlo è ancora Englaro nella sua intervista, quando dice che «Eluana ha avuto le cure migliori», anche se poi cade nella sua contraddizione: tutto era «inutile». Come la vita di Eluana, inutile perché ormai imperfetta. «Dipendeva in tutto da mani altrui», specifica, di nuovo con orrore per quelle mani, ben diverse dalle sue, mani di un padre che per «rispettarla» avevano scelto di «non toccarla con un dito». Mai.

E invece sono ancora i neurologi a dircelo: toccateli, accarezzateli, parlate con loro, non sappiamo quanto ci ascoltano, sappiamo però che poco o tanto ci percepiscono. E allora, almeno in questo, ha detto bene Englaro, spiegando al giornalista perché a differenza di sua moglie lui con Eluana non parlava più: «Sapevo di parlare a me stesso». Sua figlia è morta, spiega, da quando non ha più potuto «percepirla». Lui.
Lucia Bellaspiga
© riproduzione riservata
FONTE: www.avvenire.it

MELAZZINI: VI RACCONTO LA MIA VOGLIA DI VIVERE

L'intervista del Sussidiario.net al dottor Mario Melazzini


Due anni fa si spegneva Eluana Englaro. Mentre all’esterno, dai tribunali ai giornali alle aule parlamentari imperversava una battaglia senza tregua, nel chiuso della clinica “La Quiete” di Udine il neurologo che seguiva Eluana da anni, Carlo Alberto Defanti, ne certificava la morte, dovuta ad arresto cardiaco, dopo che il personale medico incaricato aveva interrotto l’alimentazione e l’idratazione. 
«Dobbiamo cercare di dare a questa giornata il significato che merita: dar voce a chi voce non ne ha, ma soprattutto a quelle persone che non vengono ascoltate. E fare di tutto per ridurre l’isolamento e l’abbandono delle famiglie e di chi è nella condizione di Eluana». Chi parla è Mario Melazzini, medico, afflitto da sclerosi laterale amiotrofica. Al sussidiario Melazzini racconta di sé: della malattia, di un’insopprimibile voglia di vivere, e di come si possa accettare una condizione che non smette di interrogare la nostra ragione.

Melazzini, in che modo la vicenda di Eluana ha toccato la sua vita di uomo e di malato?

Mi ha portato a riflettere su come una persona disabile, legata ad una patologia neurodegenerativa, viene vista da una parte consistente della nostra società. Una società che ha trattato Eluana non come una persona, ma solo come un corpo senz’anima. È prevalsa l’idea che alcune malattie o condizioni di grave disabilità non siano conciliabili con una vita degna di essere vissuta. È la stessa idea che ha ucciso Eluana.

Proprio su questo il paese si è diviso: 17 anni di stato vegetativo non sono una vita che vale la pena di vivere.

No invece, perché la dignità di ogni vita ha un carattere ontologico e non può dipendere, come molti continuano a sostenere, dalla sua «qualità». È questo l’esito di una riduzione utilitaristica e costruttivistica,che volendo liberare l’uomo dalla sua condizione presente, gli nega ogni dignità. Nessuno, e sottolineo nessuno, può decidere che una vita non vale la pena di essere vissuta.

Non abbiamo il diritto a disporre di noi stessi, neanche in una situazione così drammatica?

Si parla molto di diritti, ma forse dobbiamo cominciare a tutelare il principale diritto che è il diritto alla vita, in qualsiasi condizione, dal concepimento alla sua fine naturale, anche con la malattia. Un paese che voglia definirsi civile dev’essere in grado di mettere tutti i suoi cittadini nella condizione di vivere con dignità anche l’esperienza della malattia e della disabilità.

Che cosa auspica, Melazzini?

Basterebbe che il ricordo di questa giornata non fosse l’ennesima occasione per contrapporsi su ideologie o posizioni legate a schieramenti politici. Dovremmo far tesoro di quanto è successo perché non possa più accadere, perché quello che è accaduto è stato un atto di totale abbandono, l’abbandono di una persona che aveva solo bisogno di essere nutrita, idratata e accudita con affetto. Questa è la lezione. Una società vera non uccide, ma si fa carico dei più deboli con amore e li accompagna lungo tutto il percorso della vita.

Lei mangia e beve con l’aiuto di un sondino. Come vive questa sua condizione di disabilità?

Per me è ormai la normalità. Non lo considero né un atto di forza né un atto di violenza, e nemmeno un atto terapeutico. Certo, chi non preferirebbe mangiarsi un bel piatto di pasta? Nella nostra vita diamo per scontate davvero tante cose. Quando ci imbattiamo in un evento legato a qualcosa che ci fa provare angoscia, come una malattia, lo rifiutiamo e questo fa parte del vissuto della persona umana. Ma oggi abbiamo la fortuna di avere a disposizione strumenti che possono garantire in qualche modo un percorso di vita anche in stato di malattia, e con dignità.

A cosa non rinuncerebbe mai?

Alle persone che mi stanno accanto. Basta a volte la loro presenza, uno sguardo. Mi infondono quella grande dignità che a volte si pensa di poter perdere. Sono convinto che da questi semplici atti quotidiani chiunque di noi può trarre non tanto un insegnamento, ma la semplice consapevolezza che anche in determinate condizioni tutto può continuare, come si dice, con qualità. Una qualità «riprogrammata» sul proprio percorso di vita, quello dettato dalle circostanze che non possiamo mutare.

Affrontare una situazione come la sua, così limitante, è questione di razionalità? Di coraggio? Di fede?

È un percorso che va metabolizzato. Non è stato semplice, all’inizio ragionavo nel modo in cui avviene intorno a noi: no, dici a te stesso, una vita così è impossibile. Ma nulla è impossibile, se c’è la consapevolezza che si matura pian piano, in un percorso legato all’esplorazione e alla conoscenza di quanto si può effettivamente sostenere nella malattia. Certo posso solo parlare della mia esperienza personale. Ma grazie alla malattia ho imparato ad accettare il mio limite.

Lei è credente. Che posto ha la fede in tutto questo?

La fede ha aumentato in me la consapevolezza di essere immerso in un Mistero che, come tale, mi rende partecipe di qualcosa di più grande di me. È qualcosa che ti cambia nel profondo, e sostiene il tuo percorso razionale di accettazione fatto di negazione, di rifiuto, di rabbia, fino a che non ti è dato di accettare e di capire. La fede conduce alla consapevolezza, passo dopo passo, che quel Mistero esiste e che per questo c’è una ragione profonda per tutto ciò che accade, male compreso. Io sto cercando, grazie ad esso, di vivere la mia situazione come un valore aggiunto, sia come uomo sia come professionista, ma soprattutto come malato.

Ha detto che grazie alla malattia ha imparato ad accettare il suo limite. Che vuol dire?

Se non temessi di essere molto presuntuoso, direi che il mio stato è qualcosa che mi accompagna e mi educa, progressivamente. Mi sento molto fortunato in tutto questo; anche se non le nascondo che preferirei tornare ad andare in bicicletta... però siccome per il momento non è possibile - per il momento: mai dire mai - andiamo avanti.

Non tutto dipende da noi, molto dipende anche dalle leggi. Lei sente tutelata la sua vita?

Le darei una duplice risposta. Come medico e professionista, le posso dire di sì. Come paziente e come persona fragile, invece, ho scarsa fiducia nell’interpretazione di quella che è la reale presa in carico della persona e dei suoi familiari da parte sia del medico, sia delle istituzioni. Sarebbe fondamentale mettere dei paletti molto solidi, perché io non voglio, su di me e su altri, che qualcuno possa decidere di considerare come atti terapeutici mezzi di supporto vitale come la nutrizione o l’idratazione o il supporto ventilatorio, e come tali farne oggetto di interruzione terapeutica.

Sono due anni che si parla di una legge che non arriva…

Quando una persona si avvicina alla fine, chi fa bene il medico con scienza e coscienza è in grado di comprendere se ciò che si sta facendo è o non è accanimento terapeutico. Però, per ovviare al fatto che su dieci professionisti uno solo possa valutare correttamente la situazione, sarebbe importante avere a disposizione qualcosa che tuteli quelle persone non in grado di esprimere la propria volontà nel momento attuale. La grande paura è di non riuscire a tutelare le fragilità più gravi, e che determinate condizioni possano diventare fattori di emarginazione e soprattutto di costo sociale.

Quanto pesa la solitudine in queste situazioni?

Può risultare mortale. Sono convinto che determinate scelte rinunciatarie non siano dettate da una scelta razionale, ma da una situazione di abbandono e di elevati costi, non solo di tipo economico, che vengono a gravare solo sulla persona e sulla sua famiglia.

In quello che dice, lei sembra tutt’altro che prigioniero di se stesso.

Può sembrare una situazione mostruosa, ma non è così. Il paradosso è che una condizione che ci piove sul capo, apparentemente inconciliabile con la vita e che mortifica senza posa il nostro corpo, faccia brillare ancor di più tutto ciò che c’è nella persona, le sue emozioni, la sua anima. Io questo lo sto imparando quotidianamente dalle persone malate, dall’amore con cui i familiari le accudiscono, dallo sguardo anche con cui queste persone rispondono. Siamo qui a toccare con mano che l’essere conta infinitamente più del fare.

(Federico Ferraù)



FONTE: www.ilsussidiario.net

ELUANA: FINALMENTE VIEN FUORI LA VERITA' SU COME LA UCCISERO

Pubblichiamo qualche stralcio di Eluana. I fatti(144 pagine, 12 euro), il libro appena mandato alle stampe dai giornalisti Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola per l’editrice Àncora (in coedizione con Avvenire). Il testo svela gli aspetti più sconosciuti della vicenda Englaro, Fatti spesso e volentieri censurati, ignorati, tralasciati o “mascherati” da gran parte della stampa italiana.

Così è (se vi pare)
Se Eluana fosse una malata terminale, la sua uccisione apparirebbe «meno grave», una sorta di anticipazione di quanto comunque presto sarebbe avvenuto. Non solo: se fosse sofferente, se il suo corpo fosse devastato, toglierle la vita sembrerebbe una forma di pietà, la fine di un accanimento terapeutico. In realtà Eluana non soffriva affatto del suo stato – come ammette lo stesso dottor Defanti – ma fior di giornali hanno contribuito a deviare quest’informazione.
Englaro racconta un’Eluana scarnificata e inguardabile, «dalla faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo», che «pesava meno di 40 chili», le cui «braccia e gambe erano rattrappite», con il viso tutto piagato da «quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere ma a lei anche in faccia» (Corriere della Sera, 10 febbraio). Offre così un quadro raccapricciante di sua figlia, un ritratto incredibile per chi solo pochi giorni prima, a Lecco, aveva visto una paziente ben curata, forte, sana e dalla pelle intatta. E soprattutto che sarà presto smentito dall’autopsia.

Nella stanza di Eluana
Un lenzuolo candido copre la ragazza che giace distesa su un fianco, il destro, così la vediamo di spalle. O meglio, di spalle vediamo una testa di capelli lucidi e neri, tagliati corti, non cortissimi. Quella dunque è Eluana, ci siamo.
Mezzo giro intorno al letto e siamo faccia a faccia: buongiorno, Eluana. Non è più la ragazza delle foto, ma chi poteva essere così stupido da pensarlo, nessuno di noi è la persona che era vent’anni fa. Però una cosa colpisce subito: Eluana è invecchiata poco, è rimasta ragazza davvero, anche nella realtà, non solo in quella congelata dalle foto…
Di lei vedo le braccia e quelle sono tornite, sode, in carne come mai avevo visto nei numerosi “stati vegetativi” che avevo conosciuto, e pure il volto è rilassato, pieno, normale, non abbrutito da quelle tipiche espressioni deformi che avevo incontrato, bocca spalancata, bava che cola, guance scarne, una sorta di urlo muto di Munch.
È primo pomeriggio ed Eluana è sveglia: «Apre gli occhi all’alba e li richiude la sera, di giorno non dorme», spiega suor Rosangela, che resta in camera con noi e parla poco.

Con la scusa di curarla
Eluana viene ricoverata nella casa di cura “La Quiete” grazie a un “Piano di assistenza individuale” finalizzato al «recupero funzionale e alla promozione sociale dell’assistita», oltre che al «contrasto dei processi involutivi in atto»: cioè per essere curata. (…) Una novità la si scopre leggendo ciò che confida il 4 febbraio al Gazzettino Maurizio Mori (presidente dell’associazione Consulta di bioetica onlus, che segue da molto tempo e da vicino Beppino Englaro): al momento d’avviare le procedure per il ricovero a “La Quiete” c’è «una lista d’attesa, ma le gravi condizioni di Eluana hanno richiesto una sorta di procedura d’urgenza». Il dottor Carlo Alberto Defanti, nella certificazione sanitaria che precede la ragazza alla casa di cura, aveva scritto come anamnesi che la paziente «non ha avuto in passato patologie rilevanti» e nella diagnosi aveva parlato di «stato vegetativo permanente post-traumatico», giudicandola in «buone condizioni di salute». Aveva certificato che il suo ciclo sonno-veglia è «normale» e che «non ha piaghe da decubito». Quali sarebbero le «gravi condizioni» che hanno legittimato «una sorta di procedura d’urgenza»?
L’Unità di valutazione distrettuale della Asl di Udine autorizza l’accettazione affermando che Eluana ha una «rete familiare in difficoltà nella gestione assistenziale», quindi le serve «assistenza per le attività della vita quotidiana nelle 24 ore».
La ragazza entra il 3 febbraio e immediatamente viene ceduta all’équipe capeggiata da Amato De Monte, l’associazione Per Eluana: il cui operato (previsto in un protocollo firmato il giorno precedente) mira all’opposto del recupero e della cura di Eluana!

Un’autopsia imbarazzante
Da quelle pagine, si desume, «di piaghe neanche l’ombra». L’11 febbraio è anche il giorno in cui iniziano a circolare altre verità: «Secondo i periti era in buone condizioni di nutrizione», scrive l’Ansa. «Al momento del decesso pesava 53 chili», rivela il Corriere della Sera: altro che «meno di 40 chili», dunque. Eluana pesava 56 o 57 chili prima di partire per Udine. Infine la notizia più grave: «È stato calcolato anche il peso del cervello, sarebbe uguale a quello di una persona normale». Per la pubblica opinione è un fulmine a ciel sereno: il gruppetto di medici aveva infatti assicurato cose ben diverse. Che lei morendo non avrebbe sofferto perché «il suo cervello, come quello di Terri Schiavo, è ridotto almeno alla metà del suo peso».

«Alzheimer, ovvero non-persone…»
Al congresso della Società italiana di neurologia, Defanti nel 2007 tiene una relazione intitolata “Etica del prendersi cura dei pazienti con demenza”. Leggiamo: «L’invecchiamento e ancor più la demenza sollevano il problema del valore della vita umana. Certo è che davanti a una vita molto diminuita, per esempio a quella di un demente in fase avanzata, l’interrogativo se la sua vita abbia lo stesso valore di quella di uno di noi sorge abbastanza naturalmente… Un problema peculiare della demenza è quello dell’identità personale (Ip) – sostiene ancora Defanti –. Il concetto è controverso. Vi è infatti discussione su un punto: se cioè dopo la perdita dell’Ip il soggetto che resta è in certo modo “un’altra persona”», cioè «ha perso le caratteristiche stesse di persona (= è una non-persona)». Il malato di Alzheimer, spiega infatti, non ha più nemmeno la capacità di riconoscere se stesso e i suoi cari, e «questo cambiamento fa sorgere inquietanti interrogativi, ad esempio, se sussistano verso la persona così cambiata gli stessi doveri di prima, per non parlare dell’affetto».

Un disegno che parte da lontano
Era la fine del 1995. «Ricordo ancora – attacca Mori – la telefonata fattami da Defanti: “Ieri sera sono venuti da me i genitori di una giovane che, dai referti presentati, è in stato vegetativo permanente. Si è trattato di una situazione molto difficile, ma anche bella e coinvolgente… Ho spiegato loro cosa si fa negli Usa e in Gran Bretagna e che avremmo potuto parlarne con maggiore attenzione e distensione”».
La telefonata di Defanti a Mori continua. Il neurologo offre anche un profilo psicologico degli Englaro: «Sono persone di grande caratura e, mi pare, molto decise: forse sono in grado di portare avanti un caso come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland (battaglie legali per l’eutanasia, la prima negli Usa nel 1990, la seconda nel Regno Unito nel 1993, nda). Vedremo! Per ora ho assicurato loro il mio interessamento: studierò meglio il caso dal punto di vista clinico e poi valuteremo se ci sono le condizioni per procedere e come si svilupperà la situazione. Ma sono persone serie, vanno seguite!».

Il bluff della spina
Quasi tutte le testate si ostinano a parlare di «spina» e di «staccare», ma non dicono che quello di Eluana è un letto normalissimo, così come la sua stanza. Nessun macchinario, nessun monitor. Soprattutto niente che si possa staccare. Se si vuole che Eluana muoia bisogna agire, in un modo o in un altro, perché non ha malattie, non dipende neppure da un respiratore, e al di là della lesione cerebrale dovuta all’incidente non c’è nulla nel suo corpo che non funzioni, è una grave disabile come tanti altri, non una malata terminale. La soluzione potrebbe essere un’iniezione come avviene in molte nazioni per le esecuzioni capitali, ma il metodo è barbaro, così come l’ipotesi di un soffocamento. Più «accettabile», anche se più lungo, appare lasciarla senza alimenti e senz’acqua finché non si spegnerà. Un sistema che avrebbe lo stesso risultato con qualsiasi paziente incapace di reagire, non solo le migliaia di stati vegetativi in Italia, ma tutti i bambini nati con cervello atrofizzato, i disabili gravissimi o i malati di Alzheimer, per citare alcune delle vite «non degne».

La presunta volontà
Centinaia di altri genitori, che da molti anni lottano eroicamente giorno e notte per tenersi in casa i loro figli disabili, si sentono annientati: «Se lui è premiato, vuol dire che noi abbiamo sbagliato tutto…». Un uomo di Roma, Claudio Taliento, che da sei anni accudisce la moglie in stato vegetativo, va per logica: «Ora anche lei è potenzialmente sopprimibile: basta trovare un testimone che dica: “Non avrebbe voluto vivere così” e posso sopprimerla». Non entriamo nel merito del premio dato a Englaro, ma sarebbe un bel gesto che l’Unci desse la stessa onorificenza anche a uno di questi padri. Uno soltanto, per tutti i 2.700. Di loro, lasciati soli, i giornali non parlano e le istituzioni si dimenticano.

I due autori hanno deciso di devolvere i proventi del libro alle famiglie con figli in stato vegetativo indicate dall’associazione “Gli amici di Luca onlus”, che opera nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris” di Bologna.



FONTE: www.tempi.it