lunedì 26 marzo 2007

“La prima sfida è quella della vita”



Documento approvato dai 300 vincitori del XIX Concorso:

“La prima sfida è quella della vita”

promosso dal Movimento per la Vita italiano

Strasburgo, 24-27 ottobre 2006


Preambolo

Noi, trecento vincitori del XIX Concorso nazionale italiano sul tema “La prima sfida è quella della vita”;ci siamo riuniti a Strasburgo, capitale dell’Unione Europa e sede del Consiglio d’Europa dal 25 al 28 ottobre 2006. Proveniamo da tutte le regioni d’Italia, da Scuole Medie Superiori e da Università; abbiamo riflettuto, come proponeva il bando di concorso, sulla prima sfida: la vita, che si va facendo in questi anni sempre più vasta e cruciale,così come sul valore dell’uomo e sulla sua dignità, oggetto dell’altissima lezione di Giovanni Paolo II, e riconosciuta dai più importanti documenti moderni come fonte dell’uguaglianza e dei diritti umani fondamentali. A Strasburgo, all’interno del complesso dove i rappresentanti dei popoli europei dibattono sugli ideali e sui problemi dell’Europa e del mondo, abbiamo messo a confronto i nostri pensieri ed abbiamo elaborato il presente documento destinato ad essere inviato a tutti i parlamentari europei e a tutte le scuole italiane con lo scopo di far conoscere le nostre idee e le nostre aspirazioni e di contribuire, così, per quanto debole sia la nostra voce, ad una crescita di consapevolezza riguardo alla promozione dei diritti fondamentali, tra i quali in primis quello alla vita, proprio perché ogni individuo umano vivente, mai deve essere considerato una cosa,cioè come mezzo e non come un fine.

Affermiamo pertanto, dopo ampia discussione, seguita da voto democratico:

Art. 1

L’attuale crisi della costruzione Europea si manifesta nella stridente contraddizione che vede contrapporsi, da un lato, la grandezza dei suoi principi fondamentali, dall’altro, le leggi degli Stati membri, che calpestano il diritto alla vita della persona, specialmente nei momenti più fragili dell’esistenza umana, dal concepimento alla morte, che non dovrebbe essere contrastata dall’accanimento terapeutico o favorita dall’eutanasia. Diritto, quello alla vita, che trova conferma nelle radici cristiane fondanti la nostra cultura ed identità europea e che edifica uno spazio in cui ogni uomo possa essere riconosciuto come portatore di quella stessa dignità troppo spesso sacrificata da un’egoistica ricerca dei propri interessi. Si garantisca alle madri lavoratrici, inoltre, un contratto di lavoro flessibile che permetta loro di portare a termine una gravidanza, scartando conseguentemente l’irreversibile possibilità dell’aborto. Si conceda infine, agevolazioni economiche affinché ogni nucleo famigliare possa scegliere di svilupparsi nel totale rispetto della vita.

Art. 2

L’Europa nasce come forma di vita associata, sul cui concetto si fonda l’esistenza stessa dell’uomo. Come tale deve garantire la convivenza civile, la quale si può realizzare solo quando vengono rispettati i diritti fondamentali dell’uomo. Il primo, imprescindibile, è il diritto alla vita. L’Europa ha il dovere di salvaguardare tutti i cittadini che la compongono. Da ciò dipendono i diritti alla dignità, alla giustizia sociale e alla difesa: ogni individuo deve essere preservato dall’offesa, dalle sperequazioni economiche e dagli abusi. L’Unione Europea in quanto ordinamento giuridico atto a garantire quelli che sono gli interessi generali del popolo Europeo, deve sostenere i principi di fondo di una sana e pacifica convivenza civile, raggiungibile solo e soltanto attraverso l’educazione dei giovani, incentivando questi con progetti scolastici multinazionali, che creino una fitta rete, non solo di alleanza economiche, ma anche e soprattutto politico-sociali. Alla base si trova il diritto inderogabile all’uguaglianza, con particolare attenzione ai processi di tutela, rispetto, integrazione delle minoranze, attuando una politica estera aperta al dialogo, al confronto e all’apertura con le Nazioni Extra-Comunitarie, al fine di raggiungere un equilibrio pacifico. La politica che l’Europa deve adottare per il bene comune e la rispettosa attuazione delle leggi che ne regolano il funzionamento, si deve reggere su pilastri fondamentali, riconosciuti e sentiti da tutti; quali la tolleranza religiosa, l’uguaglianza sociale, l’osservanza delle leggi che non mirano a limitare, bensì a migliorare la nostra vita e il rispetto delle altre culture, che non vuol dire dimenticare le proprie radici culturali. A questi si affiancano una politica estera decisa, una politica economica liberale, in cui lo Stato effettui controlli senza monopolizzare il mercato né limitare le aspirazioni e le capacità di miglioramento dei suoi cittadini, e infine, ma non per questo di minor importanza, la difesa, che deve operare nel pieno rispetto degli organi sopranazionali e ribadendo il proprio rifiuto della guerra come mezzo di prevaricazione delle autonomie nazionali e comunitarie.

Art. 3

L’uomo e i suoi inalienabili diritti devono, dunque, essere posti al centro della costruzione Europea, ma per molti aspetti la cultura contemporanea, non riesce a vedere cosa sia e da dove derivi quella dignità, intesa, come l’integrità fisica e morale dell’individuo e il rispetto e la libertà dello stesso, che rende l’uomo superiore ad ogni altra parte del creato, nel rispetto di tutto ciò che lo circonda. In tal modo diviene insicura la moderna dottrina dei diritti umani. Invece è fondamentale riconoscere che l’essere umano, dal momento stesso del concepimento, entra in possesso di inalienabili diritti, primo fra tutti il diritto alla Vita e una pari dignità che conserva fino alla morte naturale, quali che siano le condizioni economiche e sociali; nonché di intelligenza, di salute, di etnia, di lingua, di religione e di cultura (escludendo ,cosi pratiche che offendono la dignità umana).Inoltre la dignità di ogni essere umano è da considerarsi anche un valore espressamente laico, che costituisce la colonna portante degli Stati considerati moderni e deve essere posto a fondamento di tutte le leggi promulgate dagli stessi. Riteniamo infatti che l’uguale dignità di ogni essere umano è il diritto alla vita che ne consegue, siano principi puramente laici, come è espresso nella Carta dei Diritti dell’Uomo, che la fede può arricchire, ma non sminuire; tale principio deve- proprio perché fondamento degli stati moderni- rispecchiarsi nella loro legislazione: l’Uomo cioè deve essere posto come fondamento e fine di ogni legge.

Art.4

Le istituzioni Europee hanno l’onere morale di investire nel progresso scientifico, ma per migliorare la vita dell’uomo, non per negarla; per questo è preferibile che impegnino le proprie risorse nella ricerca sulle cellule staminali che avendo infinite possibilità di specializzazione ed essendo gratuitamente reperibili, a partire da tessuti, quali ad esempio il cordone ombelicale, rappresentano un vero e proprio patrimonio per il progresso dell’Umanità, al contrario di applicazioni che, come nel caso delle cellule embrionali umane, intervengono su individui già concepiti, giocando senza senso etico sul loro diritto alla vita.

Art.5

Noi giovani europei facciamo nostro l’appello di Giovanni Paolo II, testimone dei diritti umani, all’Europa- intesa come comunità il cui scopo è il riconoscimento della dignità di ogni singolo uomo- affinché riscopra la sua storia e la sua dignità per la sua reale e non precaria affermazione, come esempio di civiltà e di progresso nel mondo.

Art. 6

Noi giovani d’Europa esortiamo i nostri parlamentari, rappresentanti della volontà e dei bisogni dei popoli, a prestare servizio a favore del bene comune, in modo da assicurare, senza distinzione di etnia e di cultura, l’armonia, l’uguaglianza sociale, convivenza pacifica e la solidarietà tra le popolazioni europee; consapevoli che la promozione e la difesa di questi ultimi potranno essere portati avanti solo riconoscendo ad ogni livello il valore della vita umana dal concepimento al suo tramonto naturale. Che questi valori siano posti a fondamento e come criteri di valutazione di ogni politica legislativa comunitaria. Si propone, inoltre, di ricercare, con coraggio e vivo interesse metodi e soluzioni efficaci finalizzati al raggiungimento della pace, della giustizia e del progresso umano e politico.

sabato 24 marzo 2007

Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali


Ne ha scritto due giorni fa il New York Times,e per spiegare bene di che si tratta hanno messo un video con tanto di interviste sul sito del giornale.
Sta a Minneapolis, al Children’s Hospitals and Clinics e si chiama Deeya: in sanscrito significa “una piccola luce”, ed è il nome di uno dei quaranta hospice perinatali ai quali ci si può rivolgere, negli Stati Uniti, per essere accompagnati e sostenuti quando il figlio che si ha in pancia ha una malattia genetica “incompatibile con la vita”, un figlio che sicuramente morirà prima o poco dopo la nascita.
Sul quotidiano americano, tempio della cultura liberal, leggiamo che dal 20 al 40 percento delle famiglie a cui è stata fatta questa diagnosi decide di portare avanti la gravidanza,e aumenta il numero di chi si rivolge agli hospice per avere un supporto tecnico e spirituale. Sono associati a strutture ospedaliere,vi lavorano medici, ostetriche, assistenti sociali che preparano le donne al parto,in gruppi separati da quelli con le donnecon gravidanze normali, e nel caso in cui il bambino sopravviva più di qualche giorno –circa il 30 per cento, in questi casi – insegnano loro come comportarsi a casa.
In Minnesota dallo scorso anno per legge le donne devono essere informate sull’esistenza di questo tipo di strutture. Gli hospice sono estranei alla logica pro choice contro pro life, e molti non sono neppure affiliati a movimenti antiabortisti: propongono solamente di sostenere le famiglie in circostanze così drammatiche, di aiutarle a vincere l’isolamentoche inevitabilmente arriva, quando amici e familiari non sanno più cosa dire per confortare, insegnano come spiegare a fratellini e sorelline che il nuovo arrivato non crescerà con loro, e soprattutto “ci hanno dato la possibilità di capire che questo non è qualcosa al di fuori dell’ordinario, che questa è la vita, e che le persone perdono i propri figli”, come spiega la signora Newell,mamma di Joseph, nato morto l’8 gennaio per via di una enorme cisti piena di liquido,inamovibile, che copriva tutta la colonna vertebrale del suo bambino.
I Newell sono cattolici ma anche sostenitori del diritto ad abortire, e quando hanno saputo che per il loro figlio non c’era nienteda fare, hanno chiesto “Cosa possiamo fare per passare bene il tempo con lui, visto che questo sarà il solo nostro tempo con lui?”.Quando è nato, l’infermiera lo ha messo nella culla, come se fosse vivo, i suoi genitori lo hanno potuto tenere in braccio, anche se per poco, e il suo papà lo ha vestito, aiutato dal personale dell’hospice. Nel video vediamo anche Alaina Kilibardasin braccio al padre, piccolissima e vestita di rosa, che guarda nella telecamera.
Leiha la trisomia 18, cioè un cromosoma in più,e fa parte di quel 10 per cento di bambini con questo tipo di malattia che sopravvive oltrei due mesi. Adesso ne ha venti, e i suoi genitori sanno che difficilmente arriverà all’età prescolare. All’hospice hanno suggerito ai Kilibardas di fare insieme qualcosa da ricordare,e quindi mentre i genitori normalmente evitano di portare i propri figli, sani in posti affollati dove potrebbero ammalarsi, iKilibardas portano Alaina a casa di amici, nei loro coffee shop preferiti. Vogliono che almeno una volta la piccola possa stare in posti che hanno un qualche significato nella storia della famiglia, come le foreste del nord Minnesota dove è cresciuto suo padre, e dove sono stati da poco.
“La sua vita sarà quel che sarà. Se vive due settimane, questa è la sua vita. E’ la nostra bambina”, dice il padre. “Quando stavamo aspettando Alaina– dice la mamma – la gente ci diceva: ‘Siete nelle nostre preghiere’. Ma noi non domandavamo ‘Fai andare tutto per il meglio’. Dio non scende giù per toccarti e guarirti. Lui manda le persone a farti compagnia”.


Assuntina Morresi, "Il foglio" 16/III/2007

venerdì 16 marzo 2007

Carlo Casini, sul caso del piccolo Tommy di Careggi

MOVIMENTO PER LA VITA

Il prossimo numero di Sìallavita, mensile del Movimento per la vita, ospita un editoriale del presidente, Carlo Casini, sul caso del piccolo Tommy di Careggi. Ne anticipiamo il testo

Il caso del piccolo Tommaso, nato vivo da un tentativo di aborto, si è concluso nel modo più tragico. Ma può diventare spunto per alcune riflessioni sull'affidabilità della legge 194, iniqua dall'origine ma ormai anche vecchia e superata, e sulla sua reale applicazione.

Il caso fiorentino dell'aborto-vivente, cioè di un corpicino di 25 cm e 500 grammi il cui cuore continua a battere una volta uscito dal corpo materno e la cui bocca emette flebili gemiti, finalmente parla. Per vero il caso non è nuovo. Noi conosciamo non poche altre situazioni simili.

Ma Tommy - questo è il nome di fantasia con cui i media hanno identificato il bimbo sopravvissuto per sei giorni all'aborto terapeutico effettuato a causa di una diagnosi sbagliata - parla. Anche la televisione lo ha fatto parlare.Che cosa ci ha detto Tommy?Tommy ci ha detto, in primo luogo, che non era un "grumo di cellule", ma un bambino, un figlio, che avrebbe potuto vivere se la gravidanza fosse proseguita ancora un poco, se i medici fossero stati meno frettolosi, se l'inquietudine e l'angoscia della mamma avessero trovato una condivisione capace di un superamento verso la vita. Tommy ci ha detto ancora ciò che nel silenzio già molti sapevano, che cioè vengono condotti alla morte piccoli innocenti esseri umani per il sospetto di una loro malformazione. Tommy era sano ma, forse, se la malformazione diagnosticata fosse stata riscontrata la commozione della gente sarebbe stata minore e la televisione l'avrebbe ignorato. C'è dunque una cultura per la quale ha diritto di vivere chi è sano ma non chi ha bisogno di cure.E' una cultura orribile contro la quale bisogna urgentemente reagire. Tommy ci ha detto ancora che un certo numero di aborti oltre il terzo mese avvengono per un errore. Conosciamo altri casi rimasti nel silenzio. Essi fanno pensare ad altri corpicini sconosciuti eliminati sebbene privi delle malformazioni temute.Diventa perciò urgente dare seguito ad una più volte ripetuta richiesta del Movimento per la vita, di sottoporre obbligatoriamente ad autopsia tutti i feti abortiti oltre il terzo mese a seguito di una diagnosi di anomalia in modo che si possa sapere veramente come stanno le cose, in modo da responsabilizzare il personale sanitario e in modo da delineare una strategia per combattere le malformazioni più frequenti e da individuare i mezzi per combatterle, per guarirle quando possibile.Ma Tommy ci dice ancora, e soprattutto, che è giunto il momento di una svolta. La sua morte è stata causata o dalla violazione della legge o dalla cattiveria di una legge. In ogni caso qualcosa occorre fare. Tentiamo almeno di applicare la legge nel modo meno perverso possibile facendo prevalere il principio di preferenza per la nascita e non rifiutiamo più un dialogo per tentare di apportare alla legge quelle modificazioni che consentano di far nascere i bambini e di aiutare le loro madri a farli nascere nella misura più grande possibile.

mercoledì 14 marzo 2007

Giovani del MpV italiano

E’ passato quasi un anno dall’avvicendamento nel ruolo di responsabile giovani del Movimento per la Vita. Il passaggio delle consegne tra Giorgio e Leo ha dato inizio a un anno intenso sotto molti punti di vista, con molte novità e con molto lavoro. Sia per capitalizzare il molto già fatto in precedenza, sia per inserirsi e collegare la capillare presenza dei giovani in tutta Italia, sia per tracciare una “rotta”, non del tutto nuova forse, ma certo peculiare e coerente con le specifiche capacità e l’entusiasmo che Leo Pergamo ci offre.
Tante iniziative, tanti stimoli, tante buone idee sono emerse con entusiasmo in tutte le occasioni di confronto che ci sono state: dal seminario Quarenghi a Soverato a quello invernale a Piancavallo, dai corsi locali di Bios e Polis al nuovo gruppo del MpV inaugurato all’università Cattolica di Milano, al convegno internazionale di Brescia sui Genocidi, al Concorso europeo a Strasburgo alle altre mille iniziative e appuntamenti che sono stati organizzati.
Il lavoro c'è stato e di sicuro non mancherà in futuro!
Per questo è urgente che ci organizziamo, ci dividiamo le responsabilità e i compiti in modo che nessuno si senta sopraffatto o solo, adempiendo agli impegni assunti con entusiasmo.
I ragazzi che si impegnano o desiderano farlo non mancano di certo alla nostra associazione, che più di altre è in grado di stimolare e di dare entusiasmo. E a noi tocca valorizzare il grandissimo capitale umano che abbiamo a disposizione. Lo abbiamo visto conoscendoci ai Quarenghi ad esempio, ogni ragazzo e ogni ragazza con una storia diversa in un posto diverso e con grandi aspirazioni da realizzare!
Innanzitutto è importante ricordare a noi stessi perché ci impegniamo nel movimento per la vita.
La tutela della vita umana dal concepimento alla morte naturale e anche difesa della famiglia naturale fondata sul matrimonio, si legge nello statuto del movimento. E’ aspirazione ambiziosa e grande, già da sola sufficiente e meritevole di assorbire le energie e risorse che abbiamo a disposizione. E pare opportuno ricordare ancora una volta che azione concreta e proposta culturale sono due facce della stessa medaglia. Come perde di efficacia un movimento che difenda solo operativamente la vita, non si può pensare di essere efficaci testimoni nella società con una proposta solo culturale. E’ un invito a tutti a partecipare e collegarsi ai CAV, tenendo a mente che “chi salva una vita salva il mondo intero”.
Mi permetto però di aggiungere che a queste finalità noi giovani abbiamo un contributo e un'interpretazione originale da offrire. Una delle cose belle di essere giovani è che possiamo permetterci di pensare e aspirare con entusiasmo di cambiare il mondo. Non è una frase retorica. E', piuttosto, la constatazione che il mondo ci offre molte cose positive e meritevoli di essere conservate da un lato, e dall'altro cose negative che non possiamo accettare acriticamente, ma piuttosto cercare di cambiarle, tutti insieme e ciascuno nel proprio ambito con le capacità specifiche che si possono offrire. Si può cominciare a cambiare le cose lanciando la sfida, in particolare, di riflettere e di agire con lo "sguardo rivolto sulla vita umana nelle fasi della sua estrema fragilità(quali sono il nascere e il morire), convinti che questo possa aiutarci a dare solidità alle colonne portanti su cui è costruito la nostra modernità". Cambiare il mondo non vuol dire essere eversivi, piuttosto, vuol dire avere un'offerta di senso e di mentalità nuova da proporre prima di tutto ai nostri amici. Significa proporre di interpretare le cose del mondo con lo sguardo sulle fasi emblematiche dell'esistenza di ciascuno di noi.
Significa essere politicamente scorretti, perché la vita e la verità sono cose scorrette. Significa anche essere noi a creare l'atmosfera nell'ambiente in cui ci troviamo ed esporci in prima persona se del caso.
Significa essere un po’ rivoluzionari perché cambiare il mondo esige lo sforzo coordinato di tutti e la capacità di andare controcorrente.
Per questo è stata creata l'equipe nazionale giovani, che raduna tutti i responsabili regionali e dei gruppi universitari, per collegare e coordinare le straordinarie risorse che abbiamo.
Tutti, credo, abbiamo conosciuto momenti di entusiasmo e di voglia di fare, con idee e progetti da realizzare, perché in effetti la sfida della vita è cosa appassionante. Ma abbiamo conosciuto anche momenti di stanchezza, di delusione, di piccoli contrasti che inevitabilmente si presentano anche tra chi condivide le stesse aspirazioni.
E in effetti, per mantenere l'entusiasmo del nostro impegno per la vita serve la volontà di coltivarlo, la consapevolezza di non essere soli ad impegnarsi che altri ragazzi come noi vivono le stesse aspirazioni. Un po’ come un bel matrimonio. Tra persone di sesso diverso, ovviamente. Che lavoriamo tutti insieme adesso, anche grazie a Leo, lo sappiamo! Arrivederci al prossimo appuntamento.

Lorenzo Masotti

dal "Si alla Vita" del 6 - 3 - 07

lunedì 12 marzo 2007

FIN DOVE ARRIVEREMO?


Il caso del bimbo di Firenze, abortito al sesto mese per il sospetto rischio di una malformazione improbabile rivelato da analisi imprecise ha occupato le prime pagine dei giornali, ma ce ne dimenticheremo presto. Il muro di omertà che non vuol chiamare la morte con il suo nome, e che in questi giorni ha mostrato qualche crepa, si riconsoliderà ben presto al grido di “la 194 non si tocca”. E pace all’anima degli abortiti, che per i radicali non sono degni nemmeno di essere seppelliti, perchè altrimenti si correrebbe il rischio di equipararli agli esseri umani. Meglio che restino solo “rifiuti ospedalieri speciali”…
Per i radicali l’aborto è un diritto sacrosanto, indipendentemente dalle situazioni. Hanno tentato di cambiare in questo senso anche la permissivissima legge 194, ma poi si sono accorti che non serviva. Già così, interpretata regolarmente nel modo più largo possibile, la 194 garantisce l’aborto sempre e per tutti. La mentalità della morte che costoro (radicali, comunisti, ultraliberali…) propagandano ha già vinto, e la dimostrazione è sotto gli occhi di tutti: il bambino di Firenze poteva essere malformato o sano, ma nel dubbio si è deciso di ucciderlo. Nel dubbio, si è scelta la via della morte. Il tutto benedetto, come fanno notare i medici ed il segretario della CGIL Epifani, dalla legge 194.
Intendiamoci: leggendo il testo della 194, il comportamento tenuto dai medici risulta fuorilegge (art. 7). Ma leggendo il testo della 194 risulta anche che lo Stato, attraverso i consultori, dovrebbe “far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza” (art. 2). Non solo: lo Stato “tutela la vita umana fin dal suo inizio” (art. 1).
I consultori pubblici però sono in realtà centri che funzionano quantomeno male (centotrentamila aborti l’anno sono un po’ troppi, e non a caso la relazione del ministero si guarda bene dal dire quanti aborti siano stati evitati, come ormai da tempo chiede il Movimento per la Vita), e sulla tutela della vita ci sarebbe molto da ridire. Anche sulle cause che, secondo la legge, legittimano l’aborto entro i primi novanta giorni (art. 4), si potrebbe discutere lungamente: se ne fa un uso che è eufemistico definire ampio. Il caso di Firenze si muove sulla scia di questa interpretazione larga della legge: il “pericolo per la vita della donna”, unica condizione che legittima l’aborto quando è possibile la sopravvivenza autonoma del feto (art. 6 e 7), sarà giustificato riferendosi al possibile danno psicologico di un figlio malformato, ed in tal modo non ci sarà nessun colpevole, ma solo due vittime innocenti. Due perché con l’aborto non solo è stato ammazzato un bambino, ma è stata colpita (questa volta per davvero) anche la psiche della madre, che merita vicinanza e rispetto.
Due vittime, nessun colpevole, caso chiuso. E avanti con gli aborti, come e più di prima, e avanti con le richieste di eutanasia neonatale per evitare il “rischio” che qualche bambino possa sopravvivere all’aborto. Ecco la tranquilla normalità italiana.
Ma siamo sicuri che non ci sia nessun colpevole? Siamo sicuri che sia normale o anche solo tollerabile la morte di centotrentamila bambini l’anno a causa dell’aborto? Che differenza c’è tra tutti i feti abortiti ed il bimbo di Firenze? L’età?!
In realtà un colpevole c’è ed è sotto gli occhi di tutti, solo che pochi li apriranno: la legge 194. Basta guardare i numeri: un incidente aereo con qualche morto è giustamente definito una strage. Una legge che da quando è nata ha fatto più di quattro milioni di morti può essere una buona legge?

Federico Trombetta

NON CHIAMATELA DOLCE MORTE


Nell’immobilità della malattia, l’esplosione della vita

Stando al modello imposto dai media, la scelta di morire sembra l’unica soluzione al dramma della malattia.Ma ci sono tanti malati nelle stesse condizioni cliniche di Welby che sono contenti di vivere e chiedono di poterlo fare in maniera più dignitosa, e a loro l’informazione non dà voce. Uno di loro è Mario Melazzini, primario di oncologia alla fondazione Salvatore Maugeri di Pavia e affetto da SLA. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarlo e chiedergli cosa c’è alla base del suo amore per la vita che stravolge il modo comune di rapportarsi alla malattia.

Piergiorgio Welby, nella sua lettera al presidente Napolitano, lamenta che “il mio corpo non è più il mio…se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo, ma sono italiano e qui non c’è pietà.” Dunque l’eutanasia sarebbe un atto d’amore?

No, assolutamente: l’eutanasia non può essere un atto d’amore. La frase, che non condivido, è detta da una persona sofferente dal punto di vista fisico e psicologico, e richiama ciò che è la realtà.A volte, cioè, chi richiede l’eutanasia non la chiede perché non sopporta la malattia, ma perché è totalmente abbandonato, perché si trova in uno stato di disagio emozionale. Dare la morte a qualcuno non è mai un atto d’amore, anzi è proprio l’essere umano, l’individuo sano a avere forse uno dei compiti più importanti: accompagnare e stare vicini il più possibile a queste persone che soffrono non tanto nel fisico quanto nell’anima, e accompagnarle verso il momento finale, fisiologico, della vita. Ribadisco con forza il concetto: dare la morte a qualcuno non è mai un atto d’amore.

Lei scrive che “la vita è un dono”. Che cos intende e che conseguenze porta con sé questa affermazione?

Che la vita è un dono lo sapevo o forse avevo la presunzione di saperlo. Me ne sono veramente reso conto nel momento in cui ho avuto la fortuna di ammalarmi:questo mi ha permesso di aprire gli occhi verso quelli che erano veramente i doni che la vita mi dava anche in questa condizione di estremo disagio fisico. Quindi ho la consapevolezza che, grazie alla malattia, ho potuto scoprire quali siano i veri valori della vita. Intendo cose semplicissime: il piacere di esistere, di sentirsi non una cosa ma un essere umano che, purtroppo o per fortuna, ha bisogno di tutto per poter fare qualsiasi cosa, ma che sente di esistere, di essere ancora utile. Ho scoperto quanto valga quanto sia bello avere accanto persone che ti vogliono bene, ho scoperto la voglia di guardarmi in giro, di vedere quanto siano belle le cose che ci circondano; ho scoperto quanto sia importante ascoltare le tante persone che si trovano in uno stato di abbandono e di disagio e che hanno bisogno di essere ascoltate. La voglia di vivere non mi è mai mancata, e ho capito che la vita è veramente un dono e come tale vale la pena di essere vissuta in ogni sfaccettatura: bella o meno bella. Certo, la vita è anche sofferenza, ma la sofferenza va vissuta e va, uso un termine un po’ forte, “utilizzata” nel modo giusto. È un’esperienza che ci può permettere di far tesoro di tutto ciò che la sofferenza stessa ci dà.

In un contesto come il nostro, in cui si cerca in ogni modo di censurare il dolore, la sua esperienza appare quasi una follia. Perché vale la pena di vivere e affrontare la malattia?

Quello che voi dite è vero: la malattia, la sofferenza, il dolore fanno paura perché sono espressione di debolezza e vulnerabilità. La grande fortuna di noi esseri umani è che abbiamo questa grande plasticità mentale ho la fortuna che in una malattia come la mia le funzioni cognitive rimangono abbastanza integre (anche se alcuni dicono che nel mio caso è falso…)bisogna usarle nel verso giusto, quindi io chiaramente ho riplasmato la mia vita in modo diverso. Personalmente, ho la fortuna di vivere questa situazione da malato esperto: essendo medico, posso sfruttare le mie capacità tecniche per capire come risolvere su di me, ammalato, delle problematiche per le quali altri malati, non avendo le conoscenze che io ho, si trovano in enormi difficoltà. In tutto questo, la cosa positiva per me è che grazie alla malattia posso essere anche uno strumento reale, portavoce dei malati che sono in condizioni come le mie o peggiori: malati senza la SLA, malati con disabilità. Partendo dal presupposto che ne vale la pena, vivere con la malattia è comunque difficile. Se però la conosci, e, soprattutto, se hai gli strumenti per poterne affrontare le problematiche, se non sei solo, vivere la malattia diventa un accompagnamento: ti cammina a fianco, non cammina dentro di te. È un’esperienza di vita e come tale vale la pena di viverla, questo è quello che penso.

Lei lamenta che “chi vuole morire fa notizia, mentre non fa notizia chi – magari trovandosi in condizioni identiche o peggiori – vuole vivere, e pertanto viene volutamente trascurato”. A chi ritiene possa far comodo questa situazione?

Quando io dico strumentalizzazione, lo dico senza paura della parola che uso. Avete citato il caso di Piergiorgio Welby: lui era una figura politica, aveva un impegno politico. All’inizio della sua battaglia politica, se avete seguito bene la vicenda, Welby aveva chiesto di morire, aveva chiesto un atto eutanasico. Poi, a un certo punto, siccome era una cosa che non andava molto, hanno ripiegato sul concetto di autodeterminazione, dell’autonomia del malato, che è legittimo. Io per primo non avevo letto bene la Costituzione, perciò me la sono riletta: l’art. 32 e lo stesso codice deontologico medico prevedono l’autonomia, l’autodeterminazione, quindi… perché parlo di strumentalizzazione?perchè si vuol far passare per un diritto già sancito dalla Costituzione un atto che invece è perseguibile dal punto di vista penale: l’atto eutanasico. Nel caso specifico di Piergiorgio Welby è stata fatta una strumentalizzazione a fini politici che ha fatto passare l’idea, ed è questo che non accetto, che le persone in una data situazione clinica vogliono morire, perché la loro è una vita indegna. Questo non è vero. Io posso portare tantissimi esempi, lasciando perdere Melazzini, di malati con la SLA, con distrofia, con patologie inguaribili, con una disabilità elevatissima, totalmente dipendenti dalla tecnologia per vivere, che però non chiedono assolutamente di morire. Quello di Welby è l’evento singolo di una persona sola, perché lui, checché se ne dica, era una persona sola (aveva solo la moglie, ed erano quattro anni che non usciva da quella stanzetta lì…questo ci deve far riflettere moltissimo.). È stata una scelta, ma sono scelte difficili da condividere. Se uno grida che si vuol buttar giù da un cornicione, stanno tutti lì sotto ad aspettare che si butti, ma se poi non lo fa si dicono: “che peccato, non c’è stata la notizia, niente scoop!”. Fa più notizia chi grida di voler morire che che chi dice: “io voglio vivere, ma mi costa tot soldi (3000, 5000 euro al mese di assistenza che non viene riconosciuta se non parzialmente). Io ho voglia di vivere: voglio il secondo ventilatore per andare in giro, voglio la macchina attrezzata…”. Queste cose non fanno notizia, chi vuole vivere anche in queste condizioni viene preso per matto. Inoltre c’è il grosso problema del costo: se lo prendi in considerazione, poi devi dare risposte concrete di cose che effettivamente sono diritti esigibili che dovrebbero essere soddisfatti. Sono cose che scottano. Quindi strumentalizzazione in tale senso. I radicali mi hanno dato il “premio nobel per la diffamazione” perché ho denunciato la strumentalizzazione dei malati in senso politico. Io per primo mi farei strumentalizzare se fossi sicuro di poter ottenere qualcosa per chi è nelle mie condizioni o in condizioni peggiori: lo farei subito se ci fosse un ritorno concreto. L’impegno che sto cercando, con grande fatica, di portare avanti come malato, come uomo e come medico è far sentire la voce di chi è affetto da una malattia che purtroppo è mortale e che porta gravissime problematiche, come un’enorme dipendenza dalla tecnologia. Bisogna smettere di demonizzare la tecnologia: la macchina non è un accanimento. Io per nutrirmi uso la PEG, che la sera mi pompa dentro il mangiare, ma non lo sento come un accanimento: io dipendo da questa macchina, altrimenti come farei? Sarà dura, ma bisogna convincere la cultura che la palliazione non è accompagnamento alla morte, ma tutto ciò che può essere messo in atto per migliorare la qualità della vita in quel momento. Io ho bisogno della palliazione perché mi permette di essere qui, di andare a Forlì adesso, di essere stanco…è una scelta che ho fatto, ma non per dimostrare chissà cosa, come dicono i radicali, nel mio “delirio di onniscienza”. No, assolutamente. Ma penso di avere un incarico nei confronti dei tanti compagni di malattia che ho l’onere e l’onore di rappresentare, e devo fare il possibile per essere all’altezza e soddisfare le loro richieste. È un percosro, intanto andiamo avanti.

La pericolosa situazione in cui si trova il rispetto della vita, oggetto di violenti attacchi quotidiani, ci impone una responsabilità, ma noi cosa possiamo fare?

Io non sono più competente di voi in materia, sono semplicemente una persona che che sta provando sulla sua pelle cosa significhi essere vivo e quanto sia importante essere vivo. Secondo me non c’è rispetto della vita perché non c’è cultura, non c’è sensibilizzazione su ciò che è l’essere umano: basta vedere le continue diatribe sull’embrione. Noi diamo per scontate un sacco di cose e non ci fermiamo mai a pensare quanto la vita meriti un rispetto totale: la vita nel suo insieme, dal concepimento fino alla fase fisiologica finale della morte. La morte non è un diritto, è un fatto, un evento naturale. Il caso Welby ha insegnato questo: la vita non è un bene scambiabile che può essere ceduto piuttosto che concluso. Lo ribadisco: la morte non è un diritto, fa parte di quel bellissimo dono che è la vita. Purtroppo la morte a volte subentra attraverso malattie provanti, forti, devastanti: però per fortuna abbiamo gli strumenti della medicina che permettono di accompagnare in maniera degna e dignitosa il malato fino alla fase conclusiva del suo percorso. Non esiste, o è bassissima, questa cultura nei confronti della vita e della bellezza di questo dono che, in quanto tale, va mantenuto sempre il più bello possibile.


Dal tabloid universitario STRIKE, anno V numero 3, marzo 2007
http://strikeunicatt.altervista.org

lunedì 5 marzo 2007

Commercio embrioni

Si superano confini finora soltanto impensabili.
Sul commercio di embrioni umani un clima di sostanziale resa
Carlo Cardia

fonte: Avvenire 28.02.07

Un clima di assuefazione, e di sostanziale resa a nuovi poteri, si va estendendo attorno ai temi della genetica, con il superamento di confini soltanto ieri impensabile. Dalla Gran Bretagna giunge notizia che la possibilità di alienare ovuli dietro contropartita in denaro è vicina a realizzarsi. E giunge notizia di un disegno di legge che autorizzerebbe la manipolazione genetica degli embrioni umani, per il momento a fini di sperimentazione, più avanti a scopi riproduttivi. Ciò che colpisce, diciamo pure sconvolge, non è soltanto la gravità delle prospettive che si aprono con l'abbattimento di questi confini, ma il silenzio con il quale le notizie sono accolte in parte della comunità scientifica, in tanti ambienti culturali, a cominciare dai nostri. Stanno venendo meno le ultime barriere sulle quali pure tutti sembravano d'accordo sin dall'inizio delle discussioni in materia di bioetica: il rifiuto del profitto nelle disponibilità genetiche, la condanna di principio della manipolazione su embrioni umani per migliorare la specie. Soltanto qualche anno addietro un autore di bioetica come Jean-Yves Goffi rimproverava agli antirelativisti di difendere ad oltranza determinati principi per paura della "china fatale". La china fatale consisterebbe nel fatto che, accettando alcuni compromessi, inevitabilmente si giungerebbe poi ad abusi spaventosi da evitare comunque. Dalle unioni civili si passerebbe al matrimonio e alla adozione per coppie omosessuali. Dall'eutanasia moderata si passerebbe al suicidio assistito. Dalla fecondazione artificiale si passerebbe alla manipolazione degli embrioni. Goffi negava che si sarebbe giunti a tanto. Oggi egli si trova nella scomoda posizione di chi è smentito clamorosamente dai fatti in tempo quasi reale: in pochi anni, in alcuni paesi, si è percorsa tutta la china fatale che era possibile percorrere; oggi si superano quelle colonne d'ercole che si ritenevano insuperabili. Ma in una condizione preoccupante e grave ci troviamo tutti noi, si trovano le società occidentali che assistono inerti ad un declino etico che non si arresta più. La logica del profitto, oggi per qualche centinaia di euro domani per molto di più, riduce la persona nella sua individualità più intima a merce e apre le porte a nuove forme, solo velate, di servitù degli esseri umani, della donna in particolare. La manipolazione degli embrioni, pur formalmente inibita dalla normativa europea, sarà applicata prima per qualche lieve ritocco, il colore dei capelli o degli occhi di cui parla la letteratura specializzata. Poi, come già ha annunciato dalla stampa, per avere un figlio sempre più sano, forte, intelligente. Con un senso di superiorità verso gli altri, verso coloro che sono soltanto esseri normali, con le loro debolezze e i loro limiti. Chi non è neanche normale verrà emarginato e rifiutato. Quasi la prefigurazione di una selezione della specie per i più ricchi, e per i più cinici. Nel frattempo, la coscienza si assopisce, si stemperano i valori che la ispirano e la arricchiscono, si accetta tutto ciò che la tecnica realizza giorno dopo giorno, si perde il senso di sé e della preziosità della vita. È la fine non soltanto delle concezioni religiose e trascendenti, ma di quell'umanesimo che pure ha animato e sorretto tante cose buone della modernità. Sta qui, forse, il problema vero della nostra epoca. Nell'accettare la realtà materiale e i suoi sviluppi come padrona nostra e della nostra coscienza. E nell'ascoltare quasi indifferenti le voci che si richiamano ai valori più alti, come fossero voci tra le altre voci, senza che esista più un metro di giudizio, un criterio di valutazione, una vera possibilità di scelta. C'è, invece, un'alternativa capace di smuovere il clima d'inerzia nel quale siamo immersi e di suscitare l'impegno di uomini e donne. È quella, come altre volte nella storia, di tornare a mettere al centro delle scelte culturali, di quelle legislative, la persona nella sua unicità e irripetibilità e di sostenere l a vita in tutte le sue manifestazioni come qualcosa di prezioso e di insostituibile. Si tratta di una alternativa che supera la contingenza e la quotidianità ma chiama in causa la religione, la cultura, la politica, perché riguarda tutti e investe il futuro della modernità.

Gabriele Piccirillo