BIOETICA E POLITICA
Eutanasia, tentazione globale
Mentre in Italia la legge sulle scelte di fine vita muove i primi passi nell’aula di Montecitorio – dopo l’approvazione di due anni fa al Senato –, in alcuni Paesi torna d’attualità l’eutanasia attraverso episodi di cronaca che riaccendono il confronto nell’opinione pubblica. Come nel nostro Paese, sono fatti drammatici a segnare la discussione sulla libertà e i suoi limiti, sulla disponibilità o meno della vita umana, sulla sua dignità a fronte di situazioni estreme. È la conferma che, lo si voglia o no, la questione dei limiti da porre per legge a ogni possibile deriva eutanasica o – viceversa – del via libera a pratiche che la assecondano si pone in tutto il mondo e richiede chiarezza di idee sui princìpi come sugli strumenti. Sapere cosa accade in India o in Australia non è un modo per soddisfare una curiosità, ma per essere consapevoli che il principio dell’inviolabilità della vita umana nella sua fase terminale viene messo in questione ovunque. E che ovunque – come anche in Italia – c’è chi si batte per custodirlo.
INDIA: LA CORTE SUPREMA «SALVA» ARUNA DALLA MORTECorte Suprema indiana – massima autorità giudiziaria del Paese – con un storica sentenza ieri ha deciso di respingere la richiesta di eutanasia per un’infermiera che da 37 anni vive in stato vegetativo. La decisione del massimo tribunale è stata presa a seguito di una richiesta formulata per Aruna Shanbaug, 63 anni, che dal 1973 è ricoverata al Kem Hospital di Mumbai per lo stato vegetativo nel quale è caduta dopo che un minorenne, nel tentativo di violentarla all’interno dello stesso ospedale, aveva stretto attorno al suo collo una catena di acciaio che le interruppe l’afflusso di ossigeno al cervello. Emanando la sentenza, la Corte si è congratulata con l’ospedale e i suoi operatori per «l’affettuosa attenzione» dedicata alla donna. «La Chiesa è soddisfatta e sollevata dal fatto che la Corte abbia respinto la richiesta di eutanasia» ha dichiarato ad Avvenire il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale indiana.
Il caso ha avuto grande rilievo sulla stampa indiana dopo che il governo federale aveva categoricamente respinto la possibilità di eutanasia, opponendosi alle raccomandazioni emanate dal Consiglio legislativo nazionale dirette ad autorizzare i malati terminali alla scelta di poter porre volontariamente fine alle proprie sofferenze. Il procuratore generale dello Stato, G. E. Vahanvati, ha chiarito che i criteri occidentali sull’eutanasia non possono essere accettati dalla cultura e dal comune sentire dell’India, specificando nella sua arringa di opposizione alla richiesta che «noi non spingiamo verso la morte i nostri genitori o i nostri figli, anche se malati terminali. Chi può decidere se qualcuno deve vivere o morire? Chi può sapere se domani potrà esserci una cura per qualcosa ritenuto oggi clinicamente incurabile? E inoltre, una decisione in senso contrario non frustrerebbe la ricerca medica a favore della vita?».
Non appena giunta la notizia del no alla "dolce morte" – proposta da alcuni amici dell’infermiera che desideravano per lei «la fine delle sofferenze e il diritto a una morte dignitosa» – le colleghe e il personale del Kem Hospital hanno festeggiato davanti a fotografi e telecamere la «vittoria». Anche il rappresentante legale del Kem Hospital, che per 37 anni ha curato Shanbaug nonostante il totale disinteresse della famiglia, si era opposto alla domanda di eutanasia.
Il rigetto della richiesta ha però anche avuto qualche ombra. Dichiarando che «l’eutanasia attiva è illegale», la Corte Suprema infatti ha affermato di non essere contraria a una «eutanasia passiva» che potesse permettere ai malati terminali una morte controllata, nei modi da essa stessa stabiliti. Questa nota del tribunale al suo verdetto ha «deluso» il cardinale Gracias, che ha spiegato come «autorizzare qualcuno a morire equivalga ad accondiscendere al suo volersi togliere la vita». Il distinguo della Corte si è infatti concretizzato in una raccomandazione al governo affinché emani una regolamentazione legislativa che ponga rigide regole all’«eutanasia passiva» controllata dai tribunali.
Veerappa Moily, ministro della Giustizia indiano, si è mostrato molto cauto sulle raccomandazioni della Corte, affermando che «il diritto alla vita è intrinseco alla persona umana, e dunque è indispensabile un approfondito dibattito in materia». Pur prendendo atto dell’esistenza di «considerazioni umanitarie» a supporto delle richieste di eutanasia, ha poi ribadito che «essa non deve diventare strumento di morte». Anto Akkara
SPAGNA: MADRID LAVORA ALLA «FINE DEGNA»Spagna si prepara ad approvare una nuova legge sulle cure palliative, ma ci sono vari ingredienti che contribuiscono a un clima di confusione. Qual è la finalità della legge? L’obiettivo annunciato dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero pare nobile e urgente: garantire le giuste cure palliative ai malati terminali, assistere le loro famiglie, appoggiare infermi e parenti durante una fase difficilissima riconoscendo loro il diritto all’informazione e al rifiuto di ogni accanimento terapeutico. Ma alla ricetta spagnola vanno aggiunti altri elementi. In primis molta ambiguità linguistica: nel Paese quando ci si riferisce alla norma in cantiere si parla di «morte degna» (eufemismo che sottintende l’eutanasia). L’esecutivo di Zapatero ha detto esplicitamente che non ha intenzione di legalizzare l’eutanasia, ma al termine dell’ultima legislatura i socialisti hanno inserito questo tema nella loro campagna elettorale. Il timore sollevato da numerose organizzazioni per la vita è proprio questo: la legge sulle cure palliative non sarà un primo spiraglio per aprire le porte – in futuro – a una vera e propria normativa che legalizzi l’eutanasia?
Gli ultimi a fare riferimento a questo spinoso argomento sono stati i vescovi iberici. Al termine della 97esima assemblea plenaria, la settimana scorsa, il portavoce della Conferenza episcopale monsignor Antonio Martinez Camino ha ricordato che la legge deve «rispettare il diritto fondamentale alla vita di tutte le persone»: una nuova condanna dell’eutanasia e un appello alla difesa dei più deboli, malati o non nati. Secondo Gador Joya, portavoce della piattaforma associativa «Diritto di Vivere», è tutta una questione di strategia: dopo la valanga di critiche che hanno travolto la riforma dell’aborto (come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di piazza), il governo di Zapatero non avrebbe osato presentare «direttamente una legge per depenalizzare l’eutanasia. Ma bisogna restare vigili, perché stanno cominciando a introdurla». L’esecutivo di Zapatero, secondo Joya, sta facendo «un pericoloso gioco linguistico per mascherare i primi passi verso l’introduzione dell’eutanasia in Spagna». In Parlamento i socialisti hanno assicurato che «non verrà legalizzata né l’eutanasia né il suicidio assistito» (come invece reclama la sinistra radicale). Ma una fetta della società spagnola si chiede preoccupata: fino a quando? Michela Coricelli
STATI UNITI: RACHEL NON PUO' PERMETTERSI IL SONDINO, IL GIUDICE LO STACCAPer quanto assai controversa, negli Usa la sospensione di idratazione e nutrizione ai pazienti in stato vegetativo viene purtroppo praticata anche quando questi non hanno lasciato dichiarazioni anticipate di trattamento. Terri Schiavo divenne un caso solo perché le decisioni prese dal marito, legale rappresentante, trovarono l’opposizione dei genitori nei tribunali. Ma in questi giorni un altro caso sta mostrando i pericoli che può porre l’identificazione del "miglior interesse" del paziente da parte del legale rappresentante.
Rachel Nyirahabiyambere è una maestra di 59 anni, sopravvissuta al genocidio del Ruanda e a una lunga fuga nella giungla del Congo. Dal 2008 la donna vive negli Usa grazie a un permesso di soggiorno fattole ottenere dai figli, già residenti in America come rifugiati. Per assistere i nipotini Rachel ha rinunciato a un lavoro e all’assicurazione sanitaria e, risiedendo negli Usa da meno di cinque anni, è esclusa anche dal programma «Medicaid». Tutto è andato bene fino ad aprile 2010, quando un’emorragia cerebrale l’ha fatta precipitare nel coma e poi in stato vegetativo. Terminata la fase acuta, l’ospedale della Georgetown University di Washington ha cercato di dimetterla ma i figli non erano in grado di garantirle assistenza a casa e nemmeno di pagarle il ricovero in una residenza sanitaria. Quando anche la proposta di rispedirla in Ruanda è stata rigettata, il giudice ha nominato in dicembre una legale rappresentante, Andrea Sloan. Malgrado le proteste dei figli, la Sloan ha disposto il trasferimento di Rachel nella sezione per malati terminali di una residenza sanitaria, mentre l’ospedale (d’ispirazione cristiana) ha accettato di farsi carico delle spese per la degenza. Ma il 19 febbraio la residenza sanitaria ha sospeso la nutrizione della paziente e da due settimane Rachel aspetta la morte. Il New York Times, che ha scoperto il caso, ha criticato la mancanza di cuore del sistema sanitario americano riaprendo la discussione sulle controverse clausole per l’assistenza ai malati terminali previste nella riforma sanitaria di Obama, costretto a promettere a suo tempo che «alla nonna non sarà stata staccata la spina».
La Sloan ha risposto che, in assenza di dichiarazioni anticipate, toccava ai familiari dimostrare che Rachel avrebbe preferito continuare a vivere in quelle condizioni. Il figlio ha ribattuto che «nella nostra cultura noi non condanneremmo una persona a morire di fame», ma la Sloan gli ha rinfacciato che la nutrizione assistita non fa parte della cultura africana.
Per difendere il profitto delle strutture sanitarie non si è esitato a ribaltare la presunzione dell’esistenza di un istinto a vivere, salvo dimostrazione del contrario: una presunzione che, in assenza di chiare manifestazioni di volontà, suggerisce di optare per la vita, visto che l’altra soluzione è irreversibile. Si dirà che una simile vicenda in Italia non sarebbe possibile, perché l’assistenza non le sarebbe stata negata. È vero: l’anelito solidaristico da noi è molto più forte. Tuttavia, proprio mentre alla Camera inizia la discussione sulle Dat, forse è lecito interrogarsi sui poteri del «fiduciario»: infatti se non passasse la clausola per la quale le decisioni debbono avere «come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace», potremmo presto accorgerci che, invece del «migliore interesse» (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita.
INDIA: LA CORTE SUPREMA «SALVA» ARUNA DALLA MORTECorte Suprema indiana – massima autorità giudiziaria del Paese – con un storica sentenza ieri ha deciso di respingere la richiesta di eutanasia per un’infermiera che da 37 anni vive in stato vegetativo. La decisione del massimo tribunale è stata presa a seguito di una richiesta formulata per Aruna Shanbaug, 63 anni, che dal 1973 è ricoverata al Kem Hospital di Mumbai per lo stato vegetativo nel quale è caduta dopo che un minorenne, nel tentativo di violentarla all’interno dello stesso ospedale, aveva stretto attorno al suo collo una catena di acciaio che le interruppe l’afflusso di ossigeno al cervello. Emanando la sentenza, la Corte si è congratulata con l’ospedale e i suoi operatori per «l’affettuosa attenzione» dedicata alla donna. «La Chiesa è soddisfatta e sollevata dal fatto che la Corte abbia respinto la richiesta di eutanasia» ha dichiarato ad Avvenire il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale indiana.
Il caso ha avuto grande rilievo sulla stampa indiana dopo che il governo federale aveva categoricamente respinto la possibilità di eutanasia, opponendosi alle raccomandazioni emanate dal Consiglio legislativo nazionale dirette ad autorizzare i malati terminali alla scelta di poter porre volontariamente fine alle proprie sofferenze. Il procuratore generale dello Stato, G. E. Vahanvati, ha chiarito che i criteri occidentali sull’eutanasia non possono essere accettati dalla cultura e dal comune sentire dell’India, specificando nella sua arringa di opposizione alla richiesta che «noi non spingiamo verso la morte i nostri genitori o i nostri figli, anche se malati terminali. Chi può decidere se qualcuno deve vivere o morire? Chi può sapere se domani potrà esserci una cura per qualcosa ritenuto oggi clinicamente incurabile? E inoltre, una decisione in senso contrario non frustrerebbe la ricerca medica a favore della vita?».
Non appena giunta la notizia del no alla "dolce morte" – proposta da alcuni amici dell’infermiera che desideravano per lei «la fine delle sofferenze e il diritto a una morte dignitosa» – le colleghe e il personale del Kem Hospital hanno festeggiato davanti a fotografi e telecamere la «vittoria». Anche il rappresentante legale del Kem Hospital, che per 37 anni ha curato Shanbaug nonostante il totale disinteresse della famiglia, si era opposto alla domanda di eutanasia.
Il rigetto della richiesta ha però anche avuto qualche ombra. Dichiarando che «l’eutanasia attiva è illegale», la Corte Suprema infatti ha affermato di non essere contraria a una «eutanasia passiva» che potesse permettere ai malati terminali una morte controllata, nei modi da essa stessa stabiliti. Questa nota del tribunale al suo verdetto ha «deluso» il cardinale Gracias, che ha spiegato come «autorizzare qualcuno a morire equivalga ad accondiscendere al suo volersi togliere la vita». Il distinguo della Corte si è infatti concretizzato in una raccomandazione al governo affinché emani una regolamentazione legislativa che ponga rigide regole all’«eutanasia passiva» controllata dai tribunali.
Veerappa Moily, ministro della Giustizia indiano, si è mostrato molto cauto sulle raccomandazioni della Corte, affermando che «il diritto alla vita è intrinseco alla persona umana, e dunque è indispensabile un approfondito dibattito in materia». Pur prendendo atto dell’esistenza di «considerazioni umanitarie» a supporto delle richieste di eutanasia, ha poi ribadito che «essa non deve diventare strumento di morte». Anto Akkara
SPAGNA: MADRID LAVORA ALLA «FINE DEGNA»Spagna si prepara ad approvare una nuova legge sulle cure palliative, ma ci sono vari ingredienti che contribuiscono a un clima di confusione. Qual è la finalità della legge? L’obiettivo annunciato dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero pare nobile e urgente: garantire le giuste cure palliative ai malati terminali, assistere le loro famiglie, appoggiare infermi e parenti durante una fase difficilissima riconoscendo loro il diritto all’informazione e al rifiuto di ogni accanimento terapeutico. Ma alla ricetta spagnola vanno aggiunti altri elementi. In primis molta ambiguità linguistica: nel Paese quando ci si riferisce alla norma in cantiere si parla di «morte degna» (eufemismo che sottintende l’eutanasia). L’esecutivo di Zapatero ha detto esplicitamente che non ha intenzione di legalizzare l’eutanasia, ma al termine dell’ultima legislatura i socialisti hanno inserito questo tema nella loro campagna elettorale. Il timore sollevato da numerose organizzazioni per la vita è proprio questo: la legge sulle cure palliative non sarà un primo spiraglio per aprire le porte – in futuro – a una vera e propria normativa che legalizzi l’eutanasia?
Gli ultimi a fare riferimento a questo spinoso argomento sono stati i vescovi iberici. Al termine della 97esima assemblea plenaria, la settimana scorsa, il portavoce della Conferenza episcopale monsignor Antonio Martinez Camino ha ricordato che la legge deve «rispettare il diritto fondamentale alla vita di tutte le persone»: una nuova condanna dell’eutanasia e un appello alla difesa dei più deboli, malati o non nati. Secondo Gador Joya, portavoce della piattaforma associativa «Diritto di Vivere», è tutta una questione di strategia: dopo la valanga di critiche che hanno travolto la riforma dell’aborto (come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di piazza), il governo di Zapatero non avrebbe osato presentare «direttamente una legge per depenalizzare l’eutanasia. Ma bisogna restare vigili, perché stanno cominciando a introdurla». L’esecutivo di Zapatero, secondo Joya, sta facendo «un pericoloso gioco linguistico per mascherare i primi passi verso l’introduzione dell’eutanasia in Spagna». In Parlamento i socialisti hanno assicurato che «non verrà legalizzata né l’eutanasia né il suicidio assistito» (come invece reclama la sinistra radicale). Ma una fetta della società spagnola si chiede preoccupata: fino a quando? Michela Coricelli
STATI UNITI: RACHEL NON PUO' PERMETTERSI IL SONDINO, IL GIUDICE LO STACCAPer quanto assai controversa, negli Usa la sospensione di idratazione e nutrizione ai pazienti in stato vegetativo viene purtroppo praticata anche quando questi non hanno lasciato dichiarazioni anticipate di trattamento. Terri Schiavo divenne un caso solo perché le decisioni prese dal marito, legale rappresentante, trovarono l’opposizione dei genitori nei tribunali. Ma in questi giorni un altro caso sta mostrando i pericoli che può porre l’identificazione del "miglior interesse" del paziente da parte del legale rappresentante.
Rachel Nyirahabiyambere è una maestra di 59 anni, sopravvissuta al genocidio del Ruanda e a una lunga fuga nella giungla del Congo. Dal 2008 la donna vive negli Usa grazie a un permesso di soggiorno fattole ottenere dai figli, già residenti in America come rifugiati. Per assistere i nipotini Rachel ha rinunciato a un lavoro e all’assicurazione sanitaria e, risiedendo negli Usa da meno di cinque anni, è esclusa anche dal programma «Medicaid». Tutto è andato bene fino ad aprile 2010, quando un’emorragia cerebrale l’ha fatta precipitare nel coma e poi in stato vegetativo. Terminata la fase acuta, l’ospedale della Georgetown University di Washington ha cercato di dimetterla ma i figli non erano in grado di garantirle assistenza a casa e nemmeno di pagarle il ricovero in una residenza sanitaria. Quando anche la proposta di rispedirla in Ruanda è stata rigettata, il giudice ha nominato in dicembre una legale rappresentante, Andrea Sloan. Malgrado le proteste dei figli, la Sloan ha disposto il trasferimento di Rachel nella sezione per malati terminali di una residenza sanitaria, mentre l’ospedale (d’ispirazione cristiana) ha accettato di farsi carico delle spese per la degenza. Ma il 19 febbraio la residenza sanitaria ha sospeso la nutrizione della paziente e da due settimane Rachel aspetta la morte. Il New York Times, che ha scoperto il caso, ha criticato la mancanza di cuore del sistema sanitario americano riaprendo la discussione sulle controverse clausole per l’assistenza ai malati terminali previste nella riforma sanitaria di Obama, costretto a promettere a suo tempo che «alla nonna non sarà stata staccata la spina».
La Sloan ha risposto che, in assenza di dichiarazioni anticipate, toccava ai familiari dimostrare che Rachel avrebbe preferito continuare a vivere in quelle condizioni. Il figlio ha ribattuto che «nella nostra cultura noi non condanneremmo una persona a morire di fame», ma la Sloan gli ha rinfacciato che la nutrizione assistita non fa parte della cultura africana.
Per difendere il profitto delle strutture sanitarie non si è esitato a ribaltare la presunzione dell’esistenza di un istinto a vivere, salvo dimostrazione del contrario: una presunzione che, in assenza di chiare manifestazioni di volontà, suggerisce di optare per la vita, visto che l’altra soluzione è irreversibile. Si dirà che una simile vicenda in Italia non sarebbe possibile, perché l’assistenza non le sarebbe stata negata. È vero: l’anelito solidaristico da noi è molto più forte. Tuttavia, proprio mentre alla Camera inizia la discussione sulle Dat, forse è lecito interrogarsi sui poteri del «fiduciario»: infatti se non passasse la clausola per la quale le decisioni debbono avere «come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace», potremmo presto accorgerci che, invece del «migliore interesse» (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita.
Gian Luigi Gigli
AUSTRALIA: IL DOTTOR MORTE NITSCHKE CI RIPROVANonostante in Australia la legalizzazione dell’eutanasia non compia passi avanti – in Australia del Sud e in Tasmania sono state recentemente bocciate leggi in materia – Philip Nitschke (detto «dottor morte») non si arrende. Il direttore di Exit International, l’organizzazione che si batte a livello mondiale per la "dolce morte", ha reso nota l’intenzione di realizzare una clinica dove trovare l’opportuna assistenza per poter morire. Secondo Nitschke la legalizzazione dell’eutanasia in Australia è solo questione di tempo: dunque presto ci sarà bisogno di una struttura ad hoc. La clinica dovrebbe sorgere ad Adelaide o a Hobart e non si propone di procurare la morte del paziente all’interno dei propri locali: «I pazienti riceveranno le informazioni e le sostanze necessarie per porre fine ai propri giorni a casa propria», ha dichiarato Nitschke.
AUSTRALIA: IL DOTTOR MORTE NITSCHKE CI RIPROVANonostante in Australia la legalizzazione dell’eutanasia non compia passi avanti – in Australia del Sud e in Tasmania sono state recentemente bocciate leggi in materia – Philip Nitschke (detto «dottor morte») non si arrende. Il direttore di Exit International, l’organizzazione che si batte a livello mondiale per la "dolce morte", ha reso nota l’intenzione di realizzare una clinica dove trovare l’opportuna assistenza per poter morire. Secondo Nitschke la legalizzazione dell’eutanasia in Australia è solo questione di tempo: dunque presto ci sarà bisogno di una struttura ad hoc. La clinica dovrebbe sorgere ad Adelaide o a Hobart e non si propone di procurare la morte del paziente all’interno dei propri locali: «I pazienti riceveranno le informazioni e le sostanze necessarie per porre fine ai propri giorni a casa propria», ha dichiarato Nitschke.
Lorenzo Schoepflin