mercoledì 9 febbraio 2011

L'IRA CRUDELE CONTRO LE SUORE

Crudele e ingiusta


Me l’hanno violentata per quindici anni». Lo disse subito, Beppino Englaro, non appena da Udine gli arrivò la telefonata che Eluana era morta, il 9 febbraio di due anni fa. A violentarla – intendeva – non era stato chi le aveva tolto la vita, ma le suore Misericordine di Lecco, cui lui stesso l’aveva affidata due anni dopo l’incidente, nel 1994, quando ormai il futuro di sua figlia si presentava come un’immensa incognita senza spazi e soprattutto senza tempi prevedibili. Un anno? Dieci? Venti? Quanto sarebbe durata la grande incognita? Nella sua mente – ormai lo sappiamo, ce lo ha raccontato decine di volte in conferenze e convegni, e lo ha scritto nei suoi libri – c’era già la determinazione a spegnere quella vita disabile, così diversa dalla sua bellissima figlia, ma nel frattempo chi si sarebbe preso cura di lei?

Lo ricorda lo stesso Englaro, nella lunga intervista apparsa sul "Corriere" di domenica: «Ce la lasci, ce ne occupiamo noi», gli avevano subito aperto le braccia le suore di Lecco. Ma persino questo nelle sue parole ha il tono aspro dell’accusa. Come se quel «ce la lasci» non fosse stato un gesto affettuoso di accoglienza, come se quella figlia le suore gliel’avessero presa con la forza, per assisterla – anche per tutta la vita – al posto suo.

Non racconta, Englaro, che in quella clinica di Lecco l’aveva condotta lui stesso, dopo due anni di ricovero a Sondrio, che non è dietro l’angolo, ma dove quotidianamente sua moglie si recava pur di stare con Eluana. E lì, per la seconda volta, la vita fragile della sua unica figlia veniva raccolta dalle stesse mani: perché proprio alla "Talamoni" ventun anni prima Eluana era venuta al mondo. Ora al mondo continuavano a tenercela, con amore infinito, finalmente a due passi da casa, consentendo a mamma Saturna di poter accudire la sua creatura come lei sapeva e voleva fare.

Ma così la racconta Englaro dalle pagine del "Corriere": «Le suore avevano visto consumarsi anche la mamma di Eluana accanto al suo letto. Volendola lì con loro, erano state un po’ crudeli con Eluana e con sua madre. E io invece dovevo difendere mia figlia e mia moglie». Crudele – è ora di dirlo – è la pervicacia con cui Englaro all’amore risponde col disprezzo, continuando a riversare sulle Misericordine una rabbia incomprensibile.

Descrivere come crudeli quelle mani è sconvolgente e ingiusto. Sarebbero state crudeli con la madre e con la figlia: obbligando l’una a una tenerezza di mamma che lui non capiva più, e l’altra a un attaccamento di figlia, forse la sola forza ancora in grado di tenere acceso il lumino di una coscienza ben nascosta, ma che a volte faceva capolino (i neurologi conoscono bene il fenomeno e lo chiamano appunto "effetto mamma"). Lo scrissero chiaro i medici di Sondrio osservando l’andamento della giovane paziente: se a stimolarla era la madre, Eluana sembrava «rispondere», obbediva cioè «a ordini semplici».

Una notte, appuntano, pronunciò più volte e in modo inconfondibile la parola «mamma»… È vero, finché grazie alle Misericordine ne ha avuto la forza, mamma Saturna ha potuto restare accanto a sua figlia, senza che nessuno la costringesse. È vero, le suore le hanno dato tutto, assolutamente tutto ciò che in genere manca ad altre persone in stato vegetativo a causa dei costi economici, e ad ammetterlo è ancora Englaro nella sua intervista, quando dice che «Eluana ha avuto le cure migliori», anche se poi cade nella sua contraddizione: tutto era «inutile». Come la vita di Eluana, inutile perché ormai imperfetta. «Dipendeva in tutto da mani altrui», specifica, di nuovo con orrore per quelle mani, ben diverse dalle sue, mani di un padre che per «rispettarla» avevano scelto di «non toccarla con un dito». Mai.

E invece sono ancora i neurologi a dircelo: toccateli, accarezzateli, parlate con loro, non sappiamo quanto ci ascoltano, sappiamo però che poco o tanto ci percepiscono. E allora, almeno in questo, ha detto bene Englaro, spiegando al giornalista perché a differenza di sua moglie lui con Eluana non parlava più: «Sapevo di parlare a me stesso». Sua figlia è morta, spiega, da quando non ha più potuto «percepirla». Lui.
Lucia Bellaspiga
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FONTE: www.avvenire.it

MELAZZINI: VI RACCONTO LA MIA VOGLIA DI VIVERE

L'intervista del Sussidiario.net al dottor Mario Melazzini


Due anni fa si spegneva Eluana Englaro. Mentre all’esterno, dai tribunali ai giornali alle aule parlamentari imperversava una battaglia senza tregua, nel chiuso della clinica “La Quiete” di Udine il neurologo che seguiva Eluana da anni, Carlo Alberto Defanti, ne certificava la morte, dovuta ad arresto cardiaco, dopo che il personale medico incaricato aveva interrotto l’alimentazione e l’idratazione. 
«Dobbiamo cercare di dare a questa giornata il significato che merita: dar voce a chi voce non ne ha, ma soprattutto a quelle persone che non vengono ascoltate. E fare di tutto per ridurre l’isolamento e l’abbandono delle famiglie e di chi è nella condizione di Eluana». Chi parla è Mario Melazzini, medico, afflitto da sclerosi laterale amiotrofica. Al sussidiario Melazzini racconta di sé: della malattia, di un’insopprimibile voglia di vivere, e di come si possa accettare una condizione che non smette di interrogare la nostra ragione.

Melazzini, in che modo la vicenda di Eluana ha toccato la sua vita di uomo e di malato?

Mi ha portato a riflettere su come una persona disabile, legata ad una patologia neurodegenerativa, viene vista da una parte consistente della nostra società. Una società che ha trattato Eluana non come una persona, ma solo come un corpo senz’anima. È prevalsa l’idea che alcune malattie o condizioni di grave disabilità non siano conciliabili con una vita degna di essere vissuta. È la stessa idea che ha ucciso Eluana.

Proprio su questo il paese si è diviso: 17 anni di stato vegetativo non sono una vita che vale la pena di vivere.

No invece, perché la dignità di ogni vita ha un carattere ontologico e non può dipendere, come molti continuano a sostenere, dalla sua «qualità». È questo l’esito di una riduzione utilitaristica e costruttivistica,che volendo liberare l’uomo dalla sua condizione presente, gli nega ogni dignità. Nessuno, e sottolineo nessuno, può decidere che una vita non vale la pena di essere vissuta.

Non abbiamo il diritto a disporre di noi stessi, neanche in una situazione così drammatica?

Si parla molto di diritti, ma forse dobbiamo cominciare a tutelare il principale diritto che è il diritto alla vita, in qualsiasi condizione, dal concepimento alla sua fine naturale, anche con la malattia. Un paese che voglia definirsi civile dev’essere in grado di mettere tutti i suoi cittadini nella condizione di vivere con dignità anche l’esperienza della malattia e della disabilità.

Che cosa auspica, Melazzini?

Basterebbe che il ricordo di questa giornata non fosse l’ennesima occasione per contrapporsi su ideologie o posizioni legate a schieramenti politici. Dovremmo far tesoro di quanto è successo perché non possa più accadere, perché quello che è accaduto è stato un atto di totale abbandono, l’abbandono di una persona che aveva solo bisogno di essere nutrita, idratata e accudita con affetto. Questa è la lezione. Una società vera non uccide, ma si fa carico dei più deboli con amore e li accompagna lungo tutto il percorso della vita.

Lei mangia e beve con l’aiuto di un sondino. Come vive questa sua condizione di disabilità?

Per me è ormai la normalità. Non lo considero né un atto di forza né un atto di violenza, e nemmeno un atto terapeutico. Certo, chi non preferirebbe mangiarsi un bel piatto di pasta? Nella nostra vita diamo per scontate davvero tante cose. Quando ci imbattiamo in un evento legato a qualcosa che ci fa provare angoscia, come una malattia, lo rifiutiamo e questo fa parte del vissuto della persona umana. Ma oggi abbiamo la fortuna di avere a disposizione strumenti che possono garantire in qualche modo un percorso di vita anche in stato di malattia, e con dignità.

A cosa non rinuncerebbe mai?

Alle persone che mi stanno accanto. Basta a volte la loro presenza, uno sguardo. Mi infondono quella grande dignità che a volte si pensa di poter perdere. Sono convinto che da questi semplici atti quotidiani chiunque di noi può trarre non tanto un insegnamento, ma la semplice consapevolezza che anche in determinate condizioni tutto può continuare, come si dice, con qualità. Una qualità «riprogrammata» sul proprio percorso di vita, quello dettato dalle circostanze che non possiamo mutare.

Affrontare una situazione come la sua, così limitante, è questione di razionalità? Di coraggio? Di fede?

È un percorso che va metabolizzato. Non è stato semplice, all’inizio ragionavo nel modo in cui avviene intorno a noi: no, dici a te stesso, una vita così è impossibile. Ma nulla è impossibile, se c’è la consapevolezza che si matura pian piano, in un percorso legato all’esplorazione e alla conoscenza di quanto si può effettivamente sostenere nella malattia. Certo posso solo parlare della mia esperienza personale. Ma grazie alla malattia ho imparato ad accettare il mio limite.

Lei è credente. Che posto ha la fede in tutto questo?

La fede ha aumentato in me la consapevolezza di essere immerso in un Mistero che, come tale, mi rende partecipe di qualcosa di più grande di me. È qualcosa che ti cambia nel profondo, e sostiene il tuo percorso razionale di accettazione fatto di negazione, di rifiuto, di rabbia, fino a che non ti è dato di accettare e di capire. La fede conduce alla consapevolezza, passo dopo passo, che quel Mistero esiste e che per questo c’è una ragione profonda per tutto ciò che accade, male compreso. Io sto cercando, grazie ad esso, di vivere la mia situazione come un valore aggiunto, sia come uomo sia come professionista, ma soprattutto come malato.

Ha detto che grazie alla malattia ha imparato ad accettare il suo limite. Che vuol dire?

Se non temessi di essere molto presuntuoso, direi che il mio stato è qualcosa che mi accompagna e mi educa, progressivamente. Mi sento molto fortunato in tutto questo; anche se non le nascondo che preferirei tornare ad andare in bicicletta... però siccome per il momento non è possibile - per il momento: mai dire mai - andiamo avanti.

Non tutto dipende da noi, molto dipende anche dalle leggi. Lei sente tutelata la sua vita?

Le darei una duplice risposta. Come medico e professionista, le posso dire di sì. Come paziente e come persona fragile, invece, ho scarsa fiducia nell’interpretazione di quella che è la reale presa in carico della persona e dei suoi familiari da parte sia del medico, sia delle istituzioni. Sarebbe fondamentale mettere dei paletti molto solidi, perché io non voglio, su di me e su altri, che qualcuno possa decidere di considerare come atti terapeutici mezzi di supporto vitale come la nutrizione o l’idratazione o il supporto ventilatorio, e come tali farne oggetto di interruzione terapeutica.

Sono due anni che si parla di una legge che non arriva…

Quando una persona si avvicina alla fine, chi fa bene il medico con scienza e coscienza è in grado di comprendere se ciò che si sta facendo è o non è accanimento terapeutico. Però, per ovviare al fatto che su dieci professionisti uno solo possa valutare correttamente la situazione, sarebbe importante avere a disposizione qualcosa che tuteli quelle persone non in grado di esprimere la propria volontà nel momento attuale. La grande paura è di non riuscire a tutelare le fragilità più gravi, e che determinate condizioni possano diventare fattori di emarginazione e soprattutto di costo sociale.

Quanto pesa la solitudine in queste situazioni?

Può risultare mortale. Sono convinto che determinate scelte rinunciatarie non siano dettate da una scelta razionale, ma da una situazione di abbandono e di elevati costi, non solo di tipo economico, che vengono a gravare solo sulla persona e sulla sua famiglia.

In quello che dice, lei sembra tutt’altro che prigioniero di se stesso.

Può sembrare una situazione mostruosa, ma non è così. Il paradosso è che una condizione che ci piove sul capo, apparentemente inconciliabile con la vita e che mortifica senza posa il nostro corpo, faccia brillare ancor di più tutto ciò che c’è nella persona, le sue emozioni, la sua anima. Io questo lo sto imparando quotidianamente dalle persone malate, dall’amore con cui i familiari le accudiscono, dallo sguardo anche con cui queste persone rispondono. Siamo qui a toccare con mano che l’essere conta infinitamente più del fare.

(Federico Ferraù)



FONTE: www.ilsussidiario.net

ELUANA: FINALMENTE VIEN FUORI LA VERITA' SU COME LA UCCISERO

Pubblichiamo qualche stralcio di Eluana. I fatti(144 pagine, 12 euro), il libro appena mandato alle stampe dai giornalisti Lucia Bellaspiga e Pino Ciociola per l’editrice Àncora (in coedizione con Avvenire). Il testo svela gli aspetti più sconosciuti della vicenda Englaro, Fatti spesso e volentieri censurati, ignorati, tralasciati o “mascherati” da gran parte della stampa italiana.

Così è (se vi pare)
Se Eluana fosse una malata terminale, la sua uccisione apparirebbe «meno grave», una sorta di anticipazione di quanto comunque presto sarebbe avvenuto. Non solo: se fosse sofferente, se il suo corpo fosse devastato, toglierle la vita sembrerebbe una forma di pietà, la fine di un accanimento terapeutico. In realtà Eluana non soffriva affatto del suo stato – come ammette lo stesso dottor Defanti – ma fior di giornali hanno contribuito a deviare quest’informazione.
Englaro racconta un’Eluana scarnificata e inguardabile, «dalla faccia che si era rinsecchita come il resto del corpo», che «pesava meno di 40 chili», le cui «braccia e gambe erano rattrappite», con il viso tutto piagato da «quelle lacerazioni che ai vecchi vengono sul sedere ma a lei anche in faccia» (Corriere della Sera, 10 febbraio). Offre così un quadro raccapricciante di sua figlia, un ritratto incredibile per chi solo pochi giorni prima, a Lecco, aveva visto una paziente ben curata, forte, sana e dalla pelle intatta. E soprattutto che sarà presto smentito dall’autopsia.

Nella stanza di Eluana
Un lenzuolo candido copre la ragazza che giace distesa su un fianco, il destro, così la vediamo di spalle. O meglio, di spalle vediamo una testa di capelli lucidi e neri, tagliati corti, non cortissimi. Quella dunque è Eluana, ci siamo.
Mezzo giro intorno al letto e siamo faccia a faccia: buongiorno, Eluana. Non è più la ragazza delle foto, ma chi poteva essere così stupido da pensarlo, nessuno di noi è la persona che era vent’anni fa. Però una cosa colpisce subito: Eluana è invecchiata poco, è rimasta ragazza davvero, anche nella realtà, non solo in quella congelata dalle foto…
Di lei vedo le braccia e quelle sono tornite, sode, in carne come mai avevo visto nei numerosi “stati vegetativi” che avevo conosciuto, e pure il volto è rilassato, pieno, normale, non abbrutito da quelle tipiche espressioni deformi che avevo incontrato, bocca spalancata, bava che cola, guance scarne, una sorta di urlo muto di Munch.
È primo pomeriggio ed Eluana è sveglia: «Apre gli occhi all’alba e li richiude la sera, di giorno non dorme», spiega suor Rosangela, che resta in camera con noi e parla poco.

Con la scusa di curarla
Eluana viene ricoverata nella casa di cura “La Quiete” grazie a un “Piano di assistenza individuale” finalizzato al «recupero funzionale e alla promozione sociale dell’assistita», oltre che al «contrasto dei processi involutivi in atto»: cioè per essere curata. (…) Una novità la si scopre leggendo ciò che confida il 4 febbraio al Gazzettino Maurizio Mori (presidente dell’associazione Consulta di bioetica onlus, che segue da molto tempo e da vicino Beppino Englaro): al momento d’avviare le procedure per il ricovero a “La Quiete” c’è «una lista d’attesa, ma le gravi condizioni di Eluana hanno richiesto una sorta di procedura d’urgenza». Il dottor Carlo Alberto Defanti, nella certificazione sanitaria che precede la ragazza alla casa di cura, aveva scritto come anamnesi che la paziente «non ha avuto in passato patologie rilevanti» e nella diagnosi aveva parlato di «stato vegetativo permanente post-traumatico», giudicandola in «buone condizioni di salute». Aveva certificato che il suo ciclo sonno-veglia è «normale» e che «non ha piaghe da decubito». Quali sarebbero le «gravi condizioni» che hanno legittimato «una sorta di procedura d’urgenza»?
L’Unità di valutazione distrettuale della Asl di Udine autorizza l’accettazione affermando che Eluana ha una «rete familiare in difficoltà nella gestione assistenziale», quindi le serve «assistenza per le attività della vita quotidiana nelle 24 ore».
La ragazza entra il 3 febbraio e immediatamente viene ceduta all’équipe capeggiata da Amato De Monte, l’associazione Per Eluana: il cui operato (previsto in un protocollo firmato il giorno precedente) mira all’opposto del recupero e della cura di Eluana!

Un’autopsia imbarazzante
Da quelle pagine, si desume, «di piaghe neanche l’ombra». L’11 febbraio è anche il giorno in cui iniziano a circolare altre verità: «Secondo i periti era in buone condizioni di nutrizione», scrive l’Ansa. «Al momento del decesso pesava 53 chili», rivela il Corriere della Sera: altro che «meno di 40 chili», dunque. Eluana pesava 56 o 57 chili prima di partire per Udine. Infine la notizia più grave: «È stato calcolato anche il peso del cervello, sarebbe uguale a quello di una persona normale». Per la pubblica opinione è un fulmine a ciel sereno: il gruppetto di medici aveva infatti assicurato cose ben diverse. Che lei morendo non avrebbe sofferto perché «il suo cervello, come quello di Terri Schiavo, è ridotto almeno alla metà del suo peso».

«Alzheimer, ovvero non-persone…»
Al congresso della Società italiana di neurologia, Defanti nel 2007 tiene una relazione intitolata “Etica del prendersi cura dei pazienti con demenza”. Leggiamo: «L’invecchiamento e ancor più la demenza sollevano il problema del valore della vita umana. Certo è che davanti a una vita molto diminuita, per esempio a quella di un demente in fase avanzata, l’interrogativo se la sua vita abbia lo stesso valore di quella di uno di noi sorge abbastanza naturalmente… Un problema peculiare della demenza è quello dell’identità personale (Ip) – sostiene ancora Defanti –. Il concetto è controverso. Vi è infatti discussione su un punto: se cioè dopo la perdita dell’Ip il soggetto che resta è in certo modo “un’altra persona”», cioè «ha perso le caratteristiche stesse di persona (= è una non-persona)». Il malato di Alzheimer, spiega infatti, non ha più nemmeno la capacità di riconoscere se stesso e i suoi cari, e «questo cambiamento fa sorgere inquietanti interrogativi, ad esempio, se sussistano verso la persona così cambiata gli stessi doveri di prima, per non parlare dell’affetto».

Un disegno che parte da lontano
Era la fine del 1995. «Ricordo ancora – attacca Mori – la telefonata fattami da Defanti: “Ieri sera sono venuti da me i genitori di una giovane che, dai referti presentati, è in stato vegetativo permanente. Si è trattato di una situazione molto difficile, ma anche bella e coinvolgente… Ho spiegato loro cosa si fa negli Usa e in Gran Bretagna e che avremmo potuto parlarne con maggiore attenzione e distensione”».
La telefonata di Defanti a Mori continua. Il neurologo offre anche un profilo psicologico degli Englaro: «Sono persone di grande caratura e, mi pare, molto decise: forse sono in grado di portare avanti un caso come quello di Nancy Cruzan o di Tony Bland (battaglie legali per l’eutanasia, la prima negli Usa nel 1990, la seconda nel Regno Unito nel 1993, nda). Vedremo! Per ora ho assicurato loro il mio interessamento: studierò meglio il caso dal punto di vista clinico e poi valuteremo se ci sono le condizioni per procedere e come si svilupperà la situazione. Ma sono persone serie, vanno seguite!».

Il bluff della spina
Quasi tutte le testate si ostinano a parlare di «spina» e di «staccare», ma non dicono che quello di Eluana è un letto normalissimo, così come la sua stanza. Nessun macchinario, nessun monitor. Soprattutto niente che si possa staccare. Se si vuole che Eluana muoia bisogna agire, in un modo o in un altro, perché non ha malattie, non dipende neppure da un respiratore, e al di là della lesione cerebrale dovuta all’incidente non c’è nulla nel suo corpo che non funzioni, è una grave disabile come tanti altri, non una malata terminale. La soluzione potrebbe essere un’iniezione come avviene in molte nazioni per le esecuzioni capitali, ma il metodo è barbaro, così come l’ipotesi di un soffocamento. Più «accettabile», anche se più lungo, appare lasciarla senza alimenti e senz’acqua finché non si spegnerà. Un sistema che avrebbe lo stesso risultato con qualsiasi paziente incapace di reagire, non solo le migliaia di stati vegetativi in Italia, ma tutti i bambini nati con cervello atrofizzato, i disabili gravissimi o i malati di Alzheimer, per citare alcune delle vite «non degne».

La presunta volontà
Centinaia di altri genitori, che da molti anni lottano eroicamente giorno e notte per tenersi in casa i loro figli disabili, si sentono annientati: «Se lui è premiato, vuol dire che noi abbiamo sbagliato tutto…». Un uomo di Roma, Claudio Taliento, che da sei anni accudisce la moglie in stato vegetativo, va per logica: «Ora anche lei è potenzialmente sopprimibile: basta trovare un testimone che dica: “Non avrebbe voluto vivere così” e posso sopprimerla». Non entriamo nel merito del premio dato a Englaro, ma sarebbe un bel gesto che l’Unci desse la stessa onorificenza anche a uno di questi padri. Uno soltanto, per tutti i 2.700. Di loro, lasciati soli, i giornali non parlano e le istituzioni si dimenticano.

I due autori hanno deciso di devolvere i proventi del libro alle famiglie con figli in stato vegetativo indicate dall’associazione “Gli amici di Luca onlus”, che opera nella “Casa dei Risvegli Luca De Nigris” di Bologna.



FONTE: www.tempi.it