lunedì 28 marzo 2011

Eutanasia, tentazione globale

BIOETICA E POLITICA

Eutanasia, tentazione globale

Mentre in Italia la legge sulle scelte di fine vita muove i primi passi nell’aula di Montecitorio – dopo l’approvazione di due anni fa al Senato –, in alcuni Paesi torna d’attualità l’eutanasia attraverso episodi di cronaca che riaccendono il confronto nell’opinione pubblica. Come nel nostro Paese, sono fatti drammatici a segnare la discussione sulla libertà e i suoi limiti, sulla disponibilità o meno della vita umana, sulla sua dignità a fronte di situazioni estreme. È la conferma che, lo si voglia o no, la questione dei limiti da porre per legge a ogni possibile deriva eutanasica o – viceversa – del via libera a pratiche che la assecondano si pone in tutto il mondo e richiede chiarezza di idee sui princìpi come sugli strumenti. Sapere cosa accade in India o in Australia non è un modo per soddisfare una curiosità, ma per essere consapevoli che il principio dell’inviolabilità della vita umana nella sua fase terminale viene messo in questione ovunque. E che ovunque – come anche in Italia – c’è chi si batte per custodirlo.

INDIA: LA CORTE SUPREMA «SALVA» ARUNA DALLA MORTECorte Suprema indiana – massima autorità giudiziaria del Paese – con un storica sentenza ieri ha deciso di respingere la richiesta di eutanasia per un’infermiera che da 37 anni vive in stato vegetativo. La decisione del massimo tribunale è stata presa a seguito di una richiesta formulata per Aruna Shanbaug, 63 anni, che dal 1973 è ricoverata al Kem Hospital di Mumbai per lo stato vegetativo nel quale è caduta dopo che un minorenne, nel tentativo di violentarla all’interno dello stesso ospedale, aveva stretto attorno al suo collo una catena di acciaio che le interruppe l’afflusso di ossigeno al cervello. Emanando la sentenza, la Corte si è congratulata con l’ospedale e i suoi operatori per «l’affettuosa attenzione» dedicata alla donna. «La Chiesa è soddisfatta e sollevata dal fatto che la Corte abbia respinto la richiesta di eutanasia» ha dichiarato ad Avvenire il cardinale Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai e presidente della Conferenza episcopale indiana.

Il caso ha avuto grande rilievo sulla stampa indiana dopo che il governo federale aveva categoricamente respinto la possibilità di eutanasia, opponendosi alle raccomandazioni emanate dal Consiglio legislativo nazionale dirette ad autorizzare i malati terminali alla scelta di poter porre volontariamente fine alle proprie sofferenze. Il procuratore generale dello Stato, G. E. Vahanvati, ha chiarito che i criteri occidentali sull’eutanasia non possono essere accettati dalla cultura e dal comune sentire dell’India, specificando nella sua arringa di opposizione alla richiesta che «noi non spingiamo verso la morte i nostri genitori o i nostri figli, anche se malati terminali. Chi può decidere se qualcuno deve vivere o morire? Chi può sapere se domani potrà esserci una cura per qualcosa ritenuto oggi clinicamente incurabile? E inoltre, una decisione in senso contrario non frustrerebbe la ricerca medica a favore della vita?».

Non appena giunta la notizia del no alla "dolce morte" – proposta da alcuni amici dell’infermiera che desideravano per lei «la fine delle sofferenze e il diritto a una morte dignitosa» – le colleghe e il personale del Kem Hospital hanno festeggiato davanti a fotografi e telecamere la «vittoria». Anche il rappresentante legale del Kem Hospital, che per 37 anni ha curato Shanbaug nonostante il totale disinteresse della famiglia, si era opposto alla domanda di eutanasia.

Il rigetto della richiesta ha però anche avuto qualche ombra. Dichiarando che «l’eutanasia attiva è illegale», la Corte Suprema infatti ha affermato di non essere contraria a una «eutanasia passiva» che potesse permettere ai malati terminali una morte controllata, nei modi da essa stessa stabiliti. Questa nota del tribunale al suo verdetto ha «deluso» il cardinale Gracias, che ha spiegato come «autorizzare qualcuno a morire equivalga ad accondiscendere al suo volersi togliere la vita». Il distinguo della Corte si è infatti concretizzato in una raccomandazione al governo affinché emani una regolamentazione legislativa che ponga rigide regole all’«eutanasia passiva» controllata dai tribunali.

Veerappa Moily, ministro della Giustizia indiano, si è mostrato molto cauto sulle raccomandazioni della Corte, affermando che «il diritto alla vita è intrinseco alla persona umana, e dunque è indispensabile un approfondito dibattito in materia». Pur prendendo atto dell’esistenza di «considerazioni umanitarie» a supporto delle richieste di eutanasia, ha poi ribadito che «essa non deve diventare strumento di morte». Anto Akkara

SPAGNA: MADRID LAVORA ALLA «FINE DEGNA»
Spagna si prepara ad approvare una nuova legge sulle cure palliative, ma ci sono vari ingredienti che contribuiscono a un clima di confusione. Qual è la finalità della legge? L’obiettivo annunciato dal governo di José Luis Rodriguez Zapatero pare nobile e urgente: garantire le giuste cure palliative ai malati terminali, assistere le loro famiglie, appoggiare infermi e parenti durante una fase difficilissima riconoscendo loro il diritto all’informazione e al rifiuto di ogni accanimento terapeutico. Ma alla ricetta spagnola vanno aggiunti altri elementi. In primis molta ambiguità linguistica: nel Paese quando ci si riferisce alla norma in cantiere si parla di «morte degna» (eufemismo che sottintende l’eutanasia). L’esecutivo di Zapatero ha detto esplicitamente che non ha intenzione di legalizzare l’eutanasia, ma al termine dell’ultima legislatura i socialisti hanno inserito questo tema nella loro campagna elettorale. Il timore sollevato da numerose organizzazioni per la vita è proprio questo: la legge sulle cure palliative non sarà un primo spiraglio per aprire le porte – in futuro – a una vera e propria normativa che legalizzi l’eutanasia?

Gli ultimi a fare riferimento a questo spinoso argomento sono stati i vescovi iberici. Al termine della 97esima assemblea plenaria, la settimana scorsa, il portavoce della Conferenza episcopale monsignor Antonio Martinez Camino ha ricordato che la legge deve «rispettare il diritto fondamentale alla vita di tutte le persone»: una nuova condanna dell’eutanasia e un appello alla difesa dei più deboli, malati o non nati. Secondo Gador Joya, portavoce della piattaforma associativa «Diritto di Vivere», è tutta una questione di strategia: dopo la valanga di critiche che hanno travolto la riforma dell’aborto (come hanno dimostrato le grandi manifestazioni di piazza), il governo di Zapatero non avrebbe osato presentare «direttamente una legge per depenalizzare l’eutanasia. Ma bisogna restare vigili, perché stanno cominciando a introdurla». L’esecutivo di Zapatero, secondo Joya, sta facendo «un pericoloso gioco linguistico per mascherare i primi passi verso l’introduzione dell’eutanasia in Spagna». In Parlamento i socialisti hanno assicurato che «non verrà legalizzata né l’eutanasia né il suicidio assistito» (come invece reclama la sinistra radicale). Ma una fetta della società spagnola si chiede preoccupata: fino a quando? Michela Coricelli

STATI UNITI: RACHEL NON PUO' PERMETTERSI IL SONDINO, IL GIUDICE LO STACCA
Per quanto assai controversa, negli Usa la sospensione di idratazione e nutrizione ai pazienti in stato vegetativo viene purtroppo praticata anche quando questi non hanno lasciato dichiarazioni anticipate di trattamento. Terri Schiavo divenne un caso solo perché le decisioni prese dal marito, legale rappresentante, trovarono l’opposizione dei genitori nei tribunali. Ma in questi giorni un altro caso sta mostrando i pericoli che può porre l’identificazione del "miglior interesse" del paziente da parte del legale rappresentante.

Rachel Nyirahabiyambere è una maestra di 59 anni, sopravvissuta al genocidio del Ruanda e a una lunga fuga nella giungla del Congo. Dal 2008 la donna vive negli Usa grazie a un permesso di soggiorno fattole ottenere dai figli, già residenti in America come rifugiati. Per assistere i nipotini Rachel ha rinunciato a un lavoro e all’assicurazione sanitaria e, risiedendo negli Usa da meno di cinque anni, è esclusa anche dal programma «Medicaid». Tutto è andato bene fino ad aprile 2010, quando un’emorragia cerebrale l’ha fatta precipitare nel coma e poi in stato vegetativo. Terminata la fase acuta, l’ospedale della Georgetown University di Washington ha cercato di dimetterla ma i figli non erano in grado di garantirle assistenza a casa e nemmeno di pagarle il ricovero in una residenza sanitaria. Quando anche la proposta di rispedirla in Ruanda è stata rigettata, il giudice ha nominato in dicembre una legale rappresentante, Andrea Sloan. Malgrado le proteste dei figli, la Sloan ha disposto il trasferimento di Rachel nella sezione per malati terminali di una residenza sanitaria, mentre l’ospedale (d’ispirazione cristiana) ha accettato di farsi carico delle spese per la degenza. Ma il 19 febbraio la residenza sanitaria ha sospeso la nutrizione della paziente e da due settimane Rachel aspetta la morte. Il New York Times, che ha scoperto il caso, ha criticato la mancanza di cuore del sistema sanitario americano riaprendo la discussione sulle controverse clausole per l’assistenza ai malati terminali previste nella riforma sanitaria di Obama, costretto a promettere a suo tempo che «alla nonna non sarà stata staccata la spina».

La Sloan ha risposto che, in assenza di dichiarazioni anticipate, toccava ai familiari dimostrare che Rachel avrebbe preferito continuare a vivere in quelle condizioni. Il figlio ha ribattuto che «nella nostra cultura noi non condanneremmo una persona a morire di fame», ma la Sloan gli ha rinfacciato che la nutrizione assistita non fa parte della cultura africana.

Per difendere il profitto delle strutture sanitarie non si è esitato a ribaltare la presunzione dell’esistenza di un istinto a vivere, salvo dimostrazione del contrario: una presunzione che, in assenza di chiare manifestazioni di volontà, suggerisce di optare per la vita, visto che l’altra soluzione è irreversibile. Si dirà che una simile vicenda in Italia non sarebbe possibile, perché l’assistenza non le sarebbe stata negata. È vero: l’anelito solidaristico da noi è molto più forte. Tuttavia, proprio mentre alla Camera inizia la discussione sulle Dat, forse è lecito interrogarsi sui poteri del «fiduciario»: infatti se non passasse la clausola per la quale le decisioni debbono avere «come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace», potremmo presto accorgerci che, invece del «migliore interesse» (definito da altri), rischiano di entrare nel processo decisionale valutazioni che nulla hanno a che fare con la clinica, e ancor meno con il rispetto della vita.  
Gian Luigi Gigli

AUSTRALIA: IL DOTTOR MORTE NITSCHKE CI RIPROVA
Nonostante in Australia la legalizzazione dell’eutanasia non compia passi avanti – in Australia del Sud e in Tasmania sono state recentemente bocciate leggi in materia – Philip Nitschke (detto «dottor morte») non si arrende. Il direttore di Exit International, l’organizzazione che si batte a livello mondiale per la "dolce morte", ha reso nota l’intenzione di realizzare una clinica dove trovare l’opportuna assistenza per poter morire. Secondo Nitschke la legalizzazione dell’eutanasia in Australia è solo questione di tempo: dunque presto ci sarà bisogno di una struttura ad hoc. La clinica dovrebbe sorgere ad Adelaide o a Hobart e non si propone di procurare la morte del paziente all’interno dei propri locali: «I pazienti riceveranno le informazioni e le sostanze necessarie per porre fine ai propri giorni a casa propria», ha dichiarato Nitschke.  
 
Lorenzo Schoepflin

Ho visto quel bambino sbriciolarsi e sono diventata pro-life

Questa bella testimonianza è un’ennesima conferma di come le multinazionali della morte come Planned Parenthood prosperino sulla menzogna e sulla falsificazione della realtà. D’altro canto la verità prima o poi si palesa a chi la cerca con cuore sincero...

Direttrice di Planned Parenthood si dimette dopo avere assistito all’ecografia di un aborto

L’ex direttrice di una clinica di Planned Parenthood nel sudest del Texas dice di avere avuto un “cambiamento di cuore” dopo avere visto un aborto il mese scorso, ha lasciato il suo lavoro e si è unita ad un gruppo pro-life per pregare fuori dall’edificio.
Abby Johnson si trova fuori dalla clinica di Planned Parenthood di Bryan (Texas) insieme a Shawn Carney di Campaign for Life.

Abby Johnson ha accompagnato diverse donne dalle loro auto alla clinica negli otto anni in cui ha fatto volontariato e lavorato per Planned Parenthood a Bryan (Texas). Ma dice di aver capito che era ora di andarsene dopo avere visto un feto “sbriciolarsi” mentre veniva risucchiato fuori dall’utero di una paziente a settembre.
“Mentre lavoravo da Planned Parenthood ero estremamente pro-choice”, ha detto la Johnson a FoxNews.com. Ma dopo avere visto il funzionamento interno della procedura per la prima volta su un monitor ad ultrasuoni “direi che c’è stata una conversione definitiva nel mio cuore… una conversione spirituale.”
La Johnson ha detto di essersi disingannata del suo lavoro dopo che i suoi capi l’avevano spinta per mesi ad aumentare i profitti effettuando sempre più aborti, che costano alle pazienti dai 505 ai 695 dollari.
«Ad ogni incontro che avevamo ci dicevano: ‘non abbiamo abbastanza denaro, non abbiamo abbastanza denaro, dobbiamo continuare a fare aborti’» ha detto la Johnson a FoxNews.com. «È un affare che dà molti soldi ed è per questo che vogliono aumentare i numeri».
«Planned Parenthood è focalizzata sulla prevenzione» ha scritto Diane Quest, National Media Director del gruppo; «in tutta la nazione, più del 90% del servizio sanitario fornito dalle cliniche di Planned Parenthood è di natura preventiva», spiegando che «il cuore della missione dell’organizzazione è aiutare le donne a pianificare gravidanze sane e prevenire gravidanze indesiderate.»
Ma la Johnson ha detto che i suoi capi le dissero di cambiare le sue “priorità” e di concentrarsi sugli aborti, che rendevano più denaro in un momento in cui la recessione li stava danneggiando.
«Per loro non ci sono molti soldi per l’istruzione» ha detto. «Non ci sono tanti soldi per la pianificazione familiare perché c'è l’aborto.»
Senza un medico fisso, ha detto, la sua clinica effettuava aborti solo due giorni al mese, ma il medico poteva effettuare da 30 a 40 procedure ogni giorno in cui era presente. La Johnson ha stimato che ogni aborto poteva fruttare alla filiale circa 350 dollari, arrivando fino a più di 10'000 dollari al mese.
«La maggior parte del denaro andava alla clinica», ha detto.
La Johnson ha detto di non avere mai ricevuto ordini di aumentare i profitti per email o lettera, e di non avere modo di provare le sue accuse sulle pratiche effettuate alla filiale di Bryan. Ha dichiarato a FoxNews.com che le pressioni le venivano attraverso le interazioni personali con il suo direttore regionale dal più grande ufficio di Houston.
Ha detto di essersi trovata coinvolta con la clinica “per aiutare le donne e... [fare] la cosa giusta”, e l’idea di rastrellare denaro le sembrava contraria a quella che pensava fosse le missione della organizzazione fondata 93 anni fa.
«Idealmente il mio obiettivo come direttrice della clinica è che il numero di aborti non aumenti» perché «fornisci così tanta pianificazione familiare e informazioni in modo che non ci sia una richiesta di aborti»
«Ma questo non era il loro obiettivo» ha detto.


Di seguito l’intervista rilasciata il 7 novembre da Abby Johnson a Mike Huckabee di FoxNews channel

MIKE HUCKABEE: Bene, lei ha aiutato molte donne ad abortire, ma ora è una forte sostenitrice della causa pro-life e partecipa alle manifestazioni di protesta proprio davanti alla clinica per cui lavorava. Diamo il benvenuto alla ex direttrice di Planned Parenthood, Abby Johnson, da Bryan College Station, Texas. Abby, è davvero bello averla qui.
ABBY JOHNSON: Grazie.
M.H. Abbiamo chiesto a Planned Parenthood di fare una dichiarazione. Abbiamo chiesto loro di essere presenti e raccontare la loro versione della storia. Abbiamo questa dichiarazione che voglio rendere pubblica. Hanno detto: «Planned Parenthood rispetta le credenze di ognuno sulla più personale tra le questioni mediche, e Planned Parenthood rimane completamente impegnata ad assicurare che ogni donna che affronta una gravidanza indesiderata conosca tutte le sue possibilità. Planned Parenthood è impegnata soprattutto sulla prevenzione. In tutta la nazione, più del 90% del servizio sanitario fornito dalle cliniche di Planned Parenthood è di natura preventiva».
Abby, il mio giudizio sulla loro dichiarazione è che loro prevengono qualche cosa. Prevengono la nascita, non le malattie. Non c’è nessuna malattia in una gravidanza. Malattia vuol dire stare male. Non stai male quando hai un bambino.
A.J. No.
M.H. Quando lavorava da Planned Parenthood, le sembrava che la cosa centrale fosse la cura della salute e la prevenzione della malattia?
A.J. No, è prevenzione, cioè, la maggior parte è prevenzione della gravidanza. Ed è così che sono rimasta coinvolta.
M.H. La prima volta.
A.J. La prima volta.
M.H. Per aiutare la gente a non avere una gravidanza indesiderata.
A.J. Esatto. Questo è proprio il motivo per cui sono rimasta coinvolta. Ma ho scoperto presto che uno dei loro obiettivi era fare denaro. E la maniera per fare denaro è aumentare il numero degli aborti che fanno.
M.H. Lei stava lavorando in realtà, prestando aiuto ed assistenza ad un aborto, e ha visto sul monitor dell’ecografo il processo dell’aborto. Mi dica, che cosa ha visto mentre l’ecografo stava funzionando ed era in corso l’aborto?
A.J. Beh, sono stata chiamata nella stanza per prestare assistenza durante una procedura. Ed era in realtà una procedura abortiva guidata dagli ultrasuoni, che non è comune nei centri di Planned Parenthood perché è una procedura abortiva più lunga, e i centri di Planned Parenthood cercano di fare più procedure possibili, così non ci mettono molto tempo per ogni procedura. Ma per una qualche ragione questo medico aveva deciso di effettuare una procedura guidata dagli ultrasuoni su questa donna in particolare. E così fui chiamata ad aiutare. Il mio compito era tenere la sonda a ultrasuoni sulla pancia di questa donna cosicché il medico potesse vedere l’utero sullo schermo. E quando ho guardato lo schermo ho visto un bambino sullo schermo. La donna era incinta di circa 13 settimane in quel momento. E ho visto un profilo laterale completo. Ho visto dal volto ai piedi sull’ecografo. E ho visto la sonda entrare nell’utero della donna. E in quel momento ho visto il bambino che si muoveva e cercava di andare via dalla sonda.
M.H. Cercava di allontanarsene. O mio Dio.
A.J. Sì, è ho pensato: «Sta lottando per la sua vita», ed ho pensato: «È vita, voglio dire, è vivo».
M.H. Fino a quel momento, Abby, non le era sembrato così a lei che era capace di usare parole come “feto” e “tessuto”, è molto diverso rispetto a quando ha visto la forma riconoscibile di un bambino.
A.J. Era vivo.
M.H. Che cosa ha fatto? Ha detto qualcosa in quel momento al medico?
A.J. No, cioè, la mia mente stava correndo, il mio cuore batteva all’impazzata. E pensavo solo: «Oddio, fa’ che finisca». E poi, improvvisamente, era tutto finito, in un batter d’occhio. E ho visto il bambino letteralmente sbriciolarsi, ed era finito. E allora ho lasciato cadere la sonda a ultrasuoni. E poi ho compreso, «O mio Dio, non sto tenendo la sonda a ultrasuoni», e allora ho messo la sonda a posto. E tante cose mi passavano per la mente, pensavo alla mia figlia che ha tre anni, pensavo alla bella ecografia che ho fatto di lei, pensavo a come era perfetta quell’ecografia quando aveva 12 settimane nell’utero. E pensavo: Che sto facendo, che sto facendo qui? E avevo una mano sulla pancia di questa donna e pensavo: C’era vita qui dentro, ed ora non c’è. E...
M.H. Lei stava letteralmente tenendo la mano al di sopra, al di sopra dalla sua pancia in quel momento.
A.J. Sì.
M.H. Ed ha capito che ciò che c’era sotto la sua mano un momento prima era vita ed era andata via?
A.J. Sì.
M.H. Mio Dio. Per altro, la donna ha visto qualcosa di questo? poteva vedere lo schermo?
A.J. No, era sedata.
M.H. La gente non vede mai che cosa capita a loro.
A.J. No.
M.H. Non posso fare a meno di pensare che se lo vedessero potrebbero correre fuori da queste cliniche.
A.J. Sì, assolutamente. Se quelli che lavorano nella clinica vedessero che cosa stava capitando su quello schermo, correrebbero fuori. Ecco perché l’industria dell’aborto non vuole che vedano. Non vuole che vedano cosa capita davvero durante un aborto. È per questo che Planned Parenthood e tante industrie di aborti non fanno procedure abortive con l’ecografo. Non vogliono che la gente veda che cosa capita davvero nell’utero della donna.
M.H. Penso a cosa lei ha passato. Deve essere uscita quel giorno pensando: Non voglio passare il resto della mia vita a fare carriera qui dentro. Qual è stato il passo successivo? Lei era il direttore esecutivo di quella clinica di Planned Parenthood, e tuttavia non sapeva che cosa succedeva in quelle stanze da quel punto di vista.
A.J. Sì, sono andata a casa quel giorno, e ho preso la decisione quel giorno stesso, e sono andata a casa e ne ho parlato con mio marito. Mio marito è un insegnante, abbiamo una figlia, quindi dipendiamo da due redditi e così abbiamo deciso che sarei tornata a lavorare e che avrei cercato un altro lavoro. Sapevo che avevo due settimane prima che in clinica si facessero altri aborti chirurgici. Così ho avuto due settimane per trovare un altro lavoro. Così andai, la prima settimana fu piuttosto tranquilla. E venne il fine settimana, venne lunedì, ed ero seduta nel mio ufficio e piangevo. Avevo la porta chiusa. E pensavo solamente: Che cosa farò? Che cosa farò? Non voglio stare qui.
M.H. Che cosa ha detto la gente alla clinica quando alla fine ha detto: Me ne vado?
A.J. Beh, nessuno sapeva davvero cosa stava capitando. Non ho potuto parlare a nessuno della clinica perché non sapevano cosa stava succedendo nel mo cuore. Non capivano cosa stava succedendo. Ed ora che lo sanno, Planned Parenthood ha messo un ordine restrittivo su di me ora che sanno che lavoro con il movimento pro-life.
M.H. Spero che quelli di Planned Parenthood mettano un ordine restrittivo su se stessi e smettano di effettuare le terribili procedure che fanno tutti i giorni. Abby Johnson, grazie. Ha avuto molto coraggio a condividere la sua storia. E la ringrazio tanto, e spero che sia un grande avvertimento sul fatto che non possiamo ascoltare solo le parole. Dobbiamo capire le azioni che ci stanno dietro.
A.J. È vero.
M.H. Grazie. Dio la benedica. Che storia meravigliosa.
A.J. Grazie, grazie.M.H. Abby Johnson.


http://www.postaborto.it/2009/11/ho-visto-quel-bambino-sbriciolarsi-e.html