sabato 24 marzo 2007

Gli ospedali americani dove nascono anche i bambini terminali


Ne ha scritto due giorni fa il New York Times,e per spiegare bene di che si tratta hanno messo un video con tanto di interviste sul sito del giornale.
Sta a Minneapolis, al Children’s Hospitals and Clinics e si chiama Deeya: in sanscrito significa “una piccola luce”, ed è il nome di uno dei quaranta hospice perinatali ai quali ci si può rivolgere, negli Stati Uniti, per essere accompagnati e sostenuti quando il figlio che si ha in pancia ha una malattia genetica “incompatibile con la vita”, un figlio che sicuramente morirà prima o poco dopo la nascita.
Sul quotidiano americano, tempio della cultura liberal, leggiamo che dal 20 al 40 percento delle famiglie a cui è stata fatta questa diagnosi decide di portare avanti la gravidanza,e aumenta il numero di chi si rivolge agli hospice per avere un supporto tecnico e spirituale. Sono associati a strutture ospedaliere,vi lavorano medici, ostetriche, assistenti sociali che preparano le donne al parto,in gruppi separati da quelli con le donnecon gravidanze normali, e nel caso in cui il bambino sopravviva più di qualche giorno –circa il 30 per cento, in questi casi – insegnano loro come comportarsi a casa.
In Minnesota dallo scorso anno per legge le donne devono essere informate sull’esistenza di questo tipo di strutture. Gli hospice sono estranei alla logica pro choice contro pro life, e molti non sono neppure affiliati a movimenti antiabortisti: propongono solamente di sostenere le famiglie in circostanze così drammatiche, di aiutarle a vincere l’isolamentoche inevitabilmente arriva, quando amici e familiari non sanno più cosa dire per confortare, insegnano come spiegare a fratellini e sorelline che il nuovo arrivato non crescerà con loro, e soprattutto “ci hanno dato la possibilità di capire che questo non è qualcosa al di fuori dell’ordinario, che questa è la vita, e che le persone perdono i propri figli”, come spiega la signora Newell,mamma di Joseph, nato morto l’8 gennaio per via di una enorme cisti piena di liquido,inamovibile, che copriva tutta la colonna vertebrale del suo bambino.
I Newell sono cattolici ma anche sostenitori del diritto ad abortire, e quando hanno saputo che per il loro figlio non c’era nienteda fare, hanno chiesto “Cosa possiamo fare per passare bene il tempo con lui, visto che questo sarà il solo nostro tempo con lui?”.Quando è nato, l’infermiera lo ha messo nella culla, come se fosse vivo, i suoi genitori lo hanno potuto tenere in braccio, anche se per poco, e il suo papà lo ha vestito, aiutato dal personale dell’hospice. Nel video vediamo anche Alaina Kilibardasin braccio al padre, piccolissima e vestita di rosa, che guarda nella telecamera.
Leiha la trisomia 18, cioè un cromosoma in più,e fa parte di quel 10 per cento di bambini con questo tipo di malattia che sopravvive oltrei due mesi. Adesso ne ha venti, e i suoi genitori sanno che difficilmente arriverà all’età prescolare. All’hospice hanno suggerito ai Kilibardas di fare insieme qualcosa da ricordare,e quindi mentre i genitori normalmente evitano di portare i propri figli, sani in posti affollati dove potrebbero ammalarsi, iKilibardas portano Alaina a casa di amici, nei loro coffee shop preferiti. Vogliono che almeno una volta la piccola possa stare in posti che hanno un qualche significato nella storia della famiglia, come le foreste del nord Minnesota dove è cresciuto suo padre, e dove sono stati da poco.
“La sua vita sarà quel che sarà. Se vive due settimane, questa è la sua vita. E’ la nostra bambina”, dice il padre. “Quando stavamo aspettando Alaina– dice la mamma – la gente ci diceva: ‘Siete nelle nostre preghiere’. Ma noi non domandavamo ‘Fai andare tutto per il meglio’. Dio non scende giù per toccarti e guarirti. Lui manda le persone a farti compagnia”.


Assuntina Morresi, "Il foglio" 16/III/2007

4 commenti:

Anonimo ha detto...

non c'è niente da fare, in america sono sempre più avanti di tutti...

il senso di avere un figlio è proprio quello di aprirsi a un amore che non ha limiti: è un dire grazie perchè ci sei, punto e basta, non importa se per pochi mesi o per tutto il resto della mia vita.

in fondo è sempre un grosso problema di solitudine, mancanza di generosità e mancanza di punti di riferimenti: chi ha voglia di portare avanti una gravidanza per un figlio non sano o destinato alla morte precoce, tanto più se nessuno aiuta le mamme e i papà dal punto di vista psicologico, economico, medico...?
quanto è più semplice la via dell'aborto! e quanti colpevoli, oltre al genitore, ci sono dietro alla morte di uno come TOmmy di firenze!

cami

Anonimo ha detto...

Non sono cose che succedono solo in America. Anche a casa nostra, proprio in Cattolica. A Roma al Gemelli ad esempio si è costituita un'associazione, con la quale collaboriamo attivamente, la "Quercia Millenaria" (www.laquerciamillenaria.org) che si occupa proprio di fornire assistenza medica specialistica e aiuto umano ai genitori di feti terminali. Ne fanno parte famiglie che hanno già vissuto questa esperienza e hanno deciso di aprirsi all'amore per quel figlio, senza se e senza ma.
Perchè la vita umana, diceva Madre Teresa, consiste nell'amare, non nel numero di giorni di cui è fatta. E l'amore per un figlio "terminale" supera le ore della sua vita e si apre all'infinito.
Giuseppe Grande
Pres. MoVit - MpV UCSC ROMA

Anonimo ha detto...

sono d'accordo, anche da noi in realtà esistono belle iniziative, ma bisogna farle conoscere e darle più spazio.
A proposito il Progetto Gemma, cioè adottare una donna in difficoltà nel portare avanti la gravidanza potrebbe essere qualcosa di concreto
e fattibile...se riusciamo a creare un gruppo di una ventina di noi...
se saremo di più tanto meglio: potremmo aiutare più bambini a nascere

Luigi

Anonimo ha detto...

Volevo semplicemente esprimere tutto il mio affetto, la mia comprensione e soprattutto incoraggiare chi, come me, ha una persona cara affetta dalla trisonomia 18. Infatti proprio il 21 febbraio 1988 è nata mia sorella Irene, che a dispetto di quanto hanno detto i medici, è riuscita a lottare contro il male, e lo fa tuttora, a quasi 20 anni. Certo, la sua vita non si svolge come quella di tutti, ma è circondata da tanto amore e per vedere che è felice, nonostante la crudeltà della sua malattia, ci basta specchiarci nei suoi occhi sorridenti.....E' proprio lei a farci forza, e la nostra mamma riesce ad avere una ragione valida per vivere proprio grazie a lei e al suo amore...perchè essere malati non significa essere diversi, ma essere una persona con dignità e tanta nobiltà d'animo.... Un bacio affettuoso da Luana, la sorella minore della dolce Ire!!!